Cultura
la politica
dei tre linguaggi
Marcello Sorgi
Marcello Sorgi
L’Italia è sempre stata un Paese difficile da capire per i nostri interlocutori stranieri. E basta andarsi a rileggere cosa scriveva nei suoi diari Henry Kissinger, parlando di Moro e Andreotti in un’epoca in cui doveva considerarli alleati strategici di Washington, per capire che ne avrebbe fatto volentieri a meno. In tempi più recenti ci fu una volta in cui ci presentammo a un vertice europeo a Parigi con due presidenti del consiglio, uno in carica (De Mita) e uno incaricato (Andreotti), subito definiti, pe r divertimento, «la strana coppia». L’aneddottica e i libri di ricordi dei grandi ambasciatori in pensione sono ricchi di episodi singolari: ma in fondo l’Italia è stata sopportata, blandita, e perché no, apprezzata nei consessi internazionali, grazie al fatto che con tutte le sue eccentricità ha sempre saputo stare al suo posto, fedele alle sue alleanze tradizionali, rispettosa della sua storia di Paese fondatore dell’Europa, solidale, attenta, legata ai suoi principi costituzionali.
È proprio per queste ragioni che quanto sta accadendo in questi giorni, da quando si è presentato sulla scena il governo giallo-verde, è destinato a suscitare reazioni di sconcerto, se non peggio. Perfino per i nostri partner più avvezzi a oscillazioni e ambiguità degli esecutivi precedenti, infatti, è impossibile valutare di chi fidarsi, se Roma parla con tre linguaggi differenti, e spesso opposti tra loro. La posizione ufficiale, dal Canada del G7 ai recenti incontri bilaterali con la Merkel e Macron, è stata rappresentata, com’è ovvio, dal presidente del Consiglio Conte, che per il ruolo che ricopre dovrebbe avere l’ultima parola. L’accoglienza fin qui favorevole tributatagli da Trump in poi lascia capire che il professore, un po’ per cautela e un po’ per inesperienza, sia stato di poche parole nei colloqui faccia a faccia, limitandosi a confermare lo spirito di collaborazione, consentendo ove possibile, prendendo tempo quando necessario, e riservando solo timidi accenni ai punti più spinosi del contratto di governo nelle conferenze stampa, ad uso di telecamere e di rassicurazione dei suoi potenti danti causa leghista e pentastellato.
Laddove le relazioni si sono spostate dall’iniziale ufficialità cerimoniosa dei primi ministri all’indispensabile approfondimento tra titolari delle singole responsabilità, però, la natura una e trina del governo ha subito preso piede. Ai toni ultra prudenti di Conte s’è così affiancato il suono delle trombe del «monocolore Salvini», che non accontentandosi di far campagna elettorale quotidiana in Italia, ha immediatamente dispiegato una politica estera alternativa: se Conte incontrava la Merkel, cercando di tenersela buona, il vicepremier leghista si rivolgeva al suo omologo tedesco, il ministro dell’Interno Seehofer, che per inciso è al momento l’avversario più pericoloso per la Cancelliera. E nel giro di pochi giorni stabiliva un asse con il gruppo dei quattro Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), con cui condivide l’idea di un blocco totale delle frontiere per gli immigrati, anche se questa nuova alleanza punta a realizzarlo a spese dell’Italia.
L’impeto con cui Salvini ha condotto la sua campagna - proponendo di disertare l’appuntamento informale con Germania, Francia e Spagna di domenica - è stato tale da spingere anzitempo il presidente francese Macron a raccomandare a Conte di ristabilire un corretto schema di relazioni tra numeri uno di ogni Paese, per evitare ulteriori confusioni. D’altra parte, Salvini ha una strategia chiarissima, che tra l’altro sta risultando molto redditizia per la Lega nei sondaggi e in vista dei prossimi ballottaggi nelle città di domani. Punta a oscurare l’alleato pentastellato per far credere agli elettori che è inutile votarlo, e se vogliono raggiungere rapidamente gli obiettivi per cui si sono schierati il 4 marzo, non devono fare altro che contribuire ad aumentare il peso nel governo del Carroccio e di Salvini. Che come sta facendo in questi giorni, orientando dalle piazze ogni scelta di Palazzo Chigi, s’è impadronito anche della battaglia contro i vaccini, mentre la neo-ministra della Sanità 5 Stelle Grillo si barcamenava.
Che l’altro vicepremier Di Maio si batta per riaffermare la lettera del «contratto» e del programma concordato tra i due partiti della maggioranza, a questo punto, è inutile, dato che il leader della Lega comanda e dirige, mandando «bacioni» a chi lo contraddice e tenendo un randello nascosto dietro la schiena per chi provi davvero a contrastarlo. Resta il fatto che per i nostri trascurati partner internazionali, qualche valore continuano ad averlo, oltre al «contratto», le rassicurazioni che un autorevole ministro tecnico come Tria dà quotidianamente, garantendo che l’Italia non vuole uscire dall’euro e spiegando, come ha fatto all’Eurogruppo, che il reddito di cittadinanza non sta nella realtà. Vederle capovolte tutti i giorni non aiuta. Da Washington a Bruxelles, a Berlino e a Parigi, vorrebbero sapere a chi credere, se a Conte e Tria, a Salvini o a Di Maio. Ma al momento non è dato.