ebook di Fulvio Romano

mercoledì 21 febbraio 2018

Il gelo ( e la neve) della settimana.

da LA STAMPA di lunedì 18 febbraio 2018


Torneremo al 1956?

Tradizione popolare e statistiche dicono che gli ultimi giorni di febbraio sono spesso i più freddi dell'intero inverno. Non sfuggirà a questa abitudine il finale di mese che, dopo tre settimane di temperature fredde, a tratti anche al di sotto della norma storica, ci riporterà nella stagione più dura. Le “buriane” russe cominceranno a filtrare da Nord Est soltanto nel fine settimana, proprio a partire da quel San Mattia (sabato 24) che da sempre è visto come la porta della primavera, oppure di un nuovo e più gelido inverno. E così avverrà quest'anno, a meno di improvvisi cambi del quadro meteo. Un lunedì ancora di nuvole e temperature accettabili, ma già tra domani e mercoledì i nuovi sbuffi freddi arrivano dal Nord Ovest contro lo sbarramento alpino. Si prevedono deboli nevicate sull'arco montano settentrionale e occidentale, con possibili nevischiate anche a bassa quota, specie a Sud del Po. Flussi umidi da Sud Est potranno rannuvolare con qualche precipitazione il Basso Piemonte e, dopo una tregua, sarà da domenica che il flusso gelido di buriana entrerà nella padana portando ovunque le temperature minime ben al di sotto del gelo per quasi tutta la giornata. Le previsioni a lungo termine non sono a loro volta confortanti. Freddo e maltempo potrebbero sconfinare fino ai primi di marzo.

da L'Unione Monregalese

domenica 18 febbraio 2018

Jung contro Einstein Meglio il Dio che gioca a dadi

LA STAMPA

Cultura

Jung contro Einstein

Meglio il Dio

che gioca a dadi

Affascinato dalle coincidenze, lo psicanalista contestava

il principio di causalità e alla Teoria della relatività preferiva

la Meccanica quantistica di Pauli. Una lettera del 1954

«Non so se è vero che il signor Einstein abbia detto che non può credere che Dio giocasse ai dadi quando ha creato il mondo, ma se è così, non ha realizzato che l’alternativa è che Dio ha creato una macchina». Regala una battuta carica di provocazioni elettriche Carl Gustav Jung in una lettera inedita del marzo 1954 (in vendita ora presso la libreria antiquaria L’Autographe di Ginevra), indirizzata al giornalista scientifico Henri Corbière. Il patriarca della psicologia del profondo si schermisce nella riga successiva, assicurando che questa sua considerazione non è poi particolarmente importante. Ma certo non lo pensava.

La ricerca di un passaggio segreto tra le rivoluzionarie prospettive nel campo della fisica teorica e l’indagine nei labirinti della psiche era una sua speciale ossessione da più di quarant’anni. Jung scrive in risposta ad alcune domande di Corbière riguardo alla sua opinione sulla Teoria della relatività di Einstein. Il suo corrispondente era autore di un omaggio al grande fisico e aveva lavorato a un saggio sull’avvenire della scienza con un approccio trans-disciplinare, cercando punti di contatto tra le diverse regioni del sapere e con questionari inviati a celebrità «sapienti» e premi Nobel. 

L’idea dello spazio curvo

Jung era sempre stato attratto dalle porte che si schiudono tra filosofia e psicologia, arte e scienza. Aveva amato Nietzsche e Schopenhauer. Aveva conosciuto Albert Einstein in una serie di cene a Zurigo, tra il 1909 e il 1912, in cui lo scienziato aveva illustrato i fondamenti della relatività corredati da formule matematiche e una nuova idea sul rapporto tra spazio e tempo. È proprio questo a ispirare Jung: «Ho avuto la grande opportunità di discutere con lui [Einstein, ndr] le origini della sua Teoria della relatività. Dal momento che non sono né un fisico né un matematico, non ho potuto seguire l’evoluzione della parte matematica che mi sembra troppo difficile da capire» scrive nella missiva a Corbière.

Lo intriga però l’idea dello spazio curvo, del tempo come dimensione, di un nesso di non causalità tra due avvenimenti apparentemente slegati. «Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente. La causalità è il moderno pregiudizio dell’Occidente» dichiarò a un seminario sull’interpretazione dei sogni nel 1928. Due anni dopo torna sul punto in un discorso di commemorazione in onore di Richard Wilhelm, lo studioso di filosofia cinese e traduttore dello I Ching, il Libro dei Mutamenti, usato fin dall’antichità come sistema di divinazione: «La scienza dello I Ching è basata non sul principio di causalità ma su uno che - ancora senza nome in quanto non ci è familiare - ho provato a chiamare principio sincronistico».

Jung ammetterà in seguito i suoi debiti con Einstein che lo avevano spinto verso un altro fisico brillante: Wolfgang Pauli, uno dei principali teorici della Teoria dei quanti, premio Nobel per la scoperta del principio di esclusione, che spiega la stabilità degli atomi e della materia. Con Pauli il rapporto è però molto più profondo, terapeutico all’inizio e poi di collaborazione, un ping pong tra inconscio umano e microcosmo subatomico. Sono proprio i sogni raccontati da Pauli ad affinare il concetto di sincronicità. Ora i seminari tenuti da Jung negli Anni 30 del secolo scorso sull’individuazione di quei sogni saranno riuniti in un libro dalla Philemon Foundation, che cura la pubblicazione della sterminata riserva di inediti junghiani.

Apparentemente lontane, le due grandi rivoluzioni del ’900, l’analisi psicologica e la fisica teorica, incrociano più volte i loro sentieri. Einstein e Sigmund Freud nel 1933 scambiano pensieri sulle ragioni profonde della guerra (Perché la guerra?, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri), corrispondenza aperta sotto l’egida della Società delle Nazioni. Più fertile e scivoloso il rapporto tra Jung e Pauli, che lo stesso Einstein aveva nominato per il Nobel. La Meccanica quantistica, basata sulla probabilità, si adatta meglio delle teorie di Einstein al principio di sincronicità acausale che Jung stava elaborando. E la battuta nella lettera a Corbière lo dimostra: la metafora di Dio che non gioca ai dadi con l’universo era stata usata da Einstein per sfiduciare la fisica dei quanti.

Jung invece preferisce i dadi alla macchina. Per illustrare il concetto di sincronicità racconta l’episodio di una paziente che, durante una seduta, gli descrive un monile a forma di scarabeo egizio che le era stato donato in sogno; nello stesso momento Jung sente picchiettare gentilmente alla finestra, quando la apre entra ronzando nella stanza un insetto dalle ali verde smeraldo. Un’immagine che ricorda il corvo dell’omonimo poemetto di Edgar Poe. Lo psicologo degli archetipi avverte il pericolo di sconfinamenti in zone esoteriche e poco scientifiche, ma la ricerca di un graal che leghi il mondo fisico a quello psichico lo attrae irresistibilmente.

«La lezione di piano»

Mentre invia a Jung sogni pieni di mandala e diagrammi - e si correggono a vicenda le bozze dei loro scritti - Pauli esprime i suoi dubbi ai colleghi: «Il pericolo di questa situazione è che Jung pubblichi dei nonsense nel campo della fisica citandomi a suo sostegno» scrive all’assistente Marcus Fierz. Però continua a studiare fenomeni paranormali e discute le sue visioni oniriche con la discepola di Jung Marie Louise von Franz, con la quale è romanticamente coinvolto e che più tardi proverà a unire psiche e materia nella teoria dell’Unus Mundus.

In uno di questi sogni, noto come La lezione di piano, Pauli si trova insieme a uno scienziato, a un uomo identificato come il maestro e a una donna cinese che lo invita ad abbandonarsi alla musica e danzare. Pauli non ci riesce. Il sogno fa pensare a una prosa poetica delle Illuminazioni di Rimbaud che forse Jung conosceva: il titolo è Favola e culmina nell’incontro di un principe crudele e di un genio che insieme si fondono e muoiono. Di sicuro avrebbe amato la frase finale: «Al nostro desiderio manca la musica sapiente».

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Fabio Sindici


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Allarme della task-force dei Servizi guerra digitale 24 ore prima del voto

LA STAMPA

Italia

Intelligence in campo

Allarme della task-force dei Servizi

guerra digitale 24 ore prima del voto

I cacciatori di troll: azione simile in Francia e in altri Stati europei

Non c’è da stare allegri. La task force italiana impegnata a monitorare l’influenza di social media e web sulle prossime Politiche, prevede un «attacco» nelle ultime 24 ore della campagna elettorale. 

La nostra intelligence ha messo in piedi una squadra di cacciatori di troll nel 2013 e al momento ne ha individuato una quota che gravita intorno al 30 per cento rispetto a quelli che circolano sulla rete. Finora non sono state rilevate situazioni che comportino illeciti tali da richiedere un intervento giudiziario. Nelle rete degli investigatori falsi account, tante notizie provocatorie, inattendibili e anche irritanti, ma che rimangono sempre nei confini del dibattito politico. Il momento più insidioso è atteso dall’intelligence nelle 24 ore precedenti all’apertura delle urne. Proprio in quel frangente è ipotizzata un’ondata diffamatoria, contro la quale l’unità italiana di cacciatori di troll interverrà a gamba tesa, grazie anche al coinvolgimento della polizia postale che potrà bloccare la campagna degli «influencer» elettorali. Il 3 marzo rappresenta dunque il giorno in cui si registrerà un’impennata della sorveglianza cybernetica contro chi, secondo gli esperiti, approfitta di un intervento denigratorio dell’ultima ora perché l’avversario ha meno tempo per controbattere e quindi è più facile condizionare il giudizio degli elettori. 

Il team lavora con l’ausilio di algoritmi d’analisi e comprende, oltre ai tecnici informatici, anche psicologi ed esperti di comunicazione. Nel mirino c’è principalmente Twitter, perché è una fonte aperta per la diffusione di opinioni. Viene tuttavia tenuto perennemente sotto controllo anche Facebook. Non solo, una particolare attenzione è riservata anche anche al Botnet, la rete di computer controllata a distanza da un hacker, utilizzata per inviare con la posta elettronica spam e virus che possono compromettere l’utilizzo personale del pc. 

Il pericolo più preoccupante per «falsare» il risultato delle imminenti elezioni insomma è rappresentato dai social media. Twitter in testa. Vigilanza costante e cooperazione internazionale sono i fattori principali della lotta al dilagare di hashtag pilotati per demolire l’avversario politico. Non a caso l’unità di difesa cybernetica nazionale collabora con quella degli altri Paesi della Nato e, ultimamente si è confrontata in particolare con Francia e Germania dove le elezioni sono più recenti. Nel nostro Paese, inoltre, la verifica sulle potenziali infiltrazioni online nella campagna elettorale è rafforzata dall’esperienza maturata contro la criminalità organizzata che ricorre sempre di più all’utilizzo dei social. 

Per quanto concerne, invece, l’attività di disinformazione e propaganda politica italiana attivata dagli account @DoctorWho744, @lucamedico, @FrancoSuSarellu, @CorryLoddo, @Outis2000, la task force italiana non ha riscontrato posizioni illegali nel sostegno alla Russia, al M5S e alla Lega. Gli ultimi due account però, da ieri, dopo la pubblicazione dell’inchiesta del nostro giornale, sono stati sospesi dal provider. Forse Twitter non li ha più ritenuti in linea con il proprio codice deontologico? 

I nostri cacciatori di troll, in ogni caso, non abbassano la guardia e proseguono a tenere d’occhio eventuali ingerenze russe. Soprattutto a ridosso della fine della campagna elettorale. 

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grazia longo


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Così l’offensiva social contro gli Usa raggiungeva anche il nostro Paese partendo dalla base di San Pietroburgo

LA STAMPA

Italia

Così l’offensiva social contro gli Usa

raggiungeva anche il nostro Paese

partendo dalla base di San Pietroburgo 

La tecnica: fingere di operare dall’America 

Troll legati al Cremlino hanno spinto in Italia, di certo nella stagione del referendum costituzionale, anche propaganda e disinformazione no euro. Possiamo dirlo spulciando fra i dati che emergono dall’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller (Twitter sta cancellando molte tracce). Facciamo un esempio, che si aggiunge a quelli già noti: il 17 settembre 2016, pochi mesi prima del voto, l’account finto americano, in realtà russo, «dorothiebell», ritwitta e incrementa la diffusione di questo tweet dell’account @Wildchild_d1: «La #UE finalmente alla fine. Tocca a noi dare ultima decisiva spallata! Liberiamo l’#Italia». Subito dopo, un altro: «Al referendum #iovotono». Pochissimi giorni dopo il voto, che disarciona Matteo Renzi, ci sono tweet che inveiscono contro i migranti collegando la cosa alla necessità che l’Italia esca dall’euro. Per esempio il 20 dicembre l’account priceforpierce, che si finge americano ma è della factory di San Pietroburgo, ritwitta questo tweet di @islamlie2, che cerca di strumentalizzare violentemente un fatto di cronaca: «Fabrizia @Bizia l’ennesima italiana pro Islam forse uccisa (ci auguriamo ferita) dall’Islam. Abbiate rispetto, evitate commenti».

Sono di questo tenore, i tweet italiani (nel dataset di Nbc news) spinti dalla troll factory russa che è al centro dell’atto d’accusa di 37 pagine del procuratore speciale americano Mueller. I temi e gli account italiani infiammati sono anti casta, pro M5S (coi relativi network, che si possono seguire), pro destra, no migranti, ma si legano anche alla propaganda antieuropeista, fomentando una divisione esistente nella politica italiana. Sono i mesi in cui Lega e M5S si incontrano, a Mosca, con alcuni emissari di Vladimir Putin.

La Russia è davvero intervenuta nelle elezioni Usa, e in Europa? L’ipotesi, concreta, esiste proprio grazie ai dati che Mueller ha consegnato in parte alle commissioni del Congresso e che filtrano all’esterno attraverso alcuni reporter. Anne Applebaum, una delle maggiori esperte di operazioni di disinfomazione russe, spiega: «Nonostante la cattiva pubblicità, Twitter non ha rimosso i bot (programmi per la diffusione automatica di certi tweet), e nonostante i teatrali tormenti del suo capo, Facebook non ha fatto passi per assicurare che i sistemi di pubblicità mirata non stiano ancora facendo disinformazione».

Sì, ma quanto hanno davvero inciso questi attacchi cyber filorussi in Usa e Italia? Difficile quantificarlo, per totale carenza di dati pubblici; ma il problema strutturale è che Twitter e Facebook stanno cancellando pagine e post. Dal testo dell’inchiesta federale americana emerge che si è trattato di una operazione di disinformation realizzata con una quantità limitata di fondi. Come spiega Mueller nel documento-base dell’indagine i mandanti dell’operazione di cyber attacco nel settembre del 2016 avevano un budget mensile di 1,25 milioni di dollari. Ciò significa che, mantenendo teoricamente un simile livello di spesa dal 2014, la spesa avrebbe toccato i 30 milioni di dollari da parte della «factory» di San Pietroburgo . Si tratta di fondi che, secondo Mueller, erano destinati a cyber-operazioni negli Stati Uniti. Non è dunque possibile, al momento, stimare il valore di operazioni, simili e parallele, condotte in altri Paesi. Con tali fondi i russi hanno aperto fake accounts Twitter o pagine e gruppi Facebook che si fingevano americani. Hanno usato server e Vpn (reti private) negli Stati Uniti per mascherare la località da cui operavano. E-mail americane sono state usate con documenti d’identità rubati. Con queste finte identità sono stati fatti pagamenti con Paypal o cripto-monete. I primi sette troll russi del dataset che abbiamo esaminato, per volume di attività, sono: ten_gop, pamela_moore13, crystaljohnson, southlonestar, tpartynews, thefoundingson, jenna_abrams. Molti hanno portato nei network russi almeno un tweet in italiano. Quanta gente è stata raggiunta? In un dataset abbastanza piccolo (203.482 tweet, emessi da 454 account russi), 56.038 sono tweet originali dei troll russi, specialmente su materia americana, che hanno generato 2.062.515 like, e 2.302.353 retweet. Per capirci, Twitter ha dichiarato di aver chiuso almeno 2752 account direttamente operati dalla troll factory russa, e 50 mila circa collegati.

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jacopo iacoboni


Chiusi gli account filorussi dietro i cyber attacchi in Italia

LA STAMPA

Italia

Il caso

Chiusi gli account filorussi

dietro i cyber attacchi in Italia

Tre profili su cinque spariti dopo l’inchiesta de La Stampa sulle ingerenze 

Il ministro degli Esteri russo Lavrov sminuisce: “Solo chiacchiericcio”

Tre dei cinque account di Twitter che nell’inchiesta pubblicata ieri avevamo segnalato per l’attività di propaganda filorussa hanno chiuso ieri mattina, senza una parola. Senza rispondere, rivendicare le loro idee, o difendere le operazioni. Perché? È il comportamento normale di un utente che esercita il diritto di esprimere le sue opinioni? Oppure è la confessione che si trattava di un’altra cosa e quindi i gestori hanno deciso di eliminarli davanti alla nostra denuncia? Il ministro degli Esteri russo Lavrov, riferendosi ieri all’inchiesta sulle interferenze negli Usa, l’ha smentita definendola «chiacchiericcio».

Gli account che hanno chiuso sono @CorryLoddo e @Outis2000, ormai cancellati e inaccessibili. Invece @lucamedico è passato alla modalità privata. Se cerchi di leggere i contenuti, sullo schermo compare questa risposta: «This account’s Tweets are protected. Only confirmed followers have access». Traduzione: i tweet di questo account sono protetti, solo i seguaci confermati hanno accesso. In apertura resta visibile una scritta in cirillico.

Per capire che tipo di propaganda facessero, basta aprire invece @DoctorWho744, che è ancora in funzione. I contenuti riprendono e rilanciano temi pubblicati dai media russi, oppure notizie favorevoli a Movimento 5 Stelle e Lega. Ad esempio: il ministro degli Esteri di Mosca Lavrov dice che gli americani intendono stabilirsi a lungo in Siria, occupando gran parte del territorio nazionale. Segue un attacco al ministro degli Interni italiano Minniti, perché sul tema dei migranti ha detto che gli italiani finiranno per trasferirsi in Africa. Un tweet di Voice of Europe viene invece ripreso per denunciare che il finanziere Soros sostiene un piano per distruggere lo stato nazione e l’intero Occidente. Segue una serie di tweet rilanciati da Sputnik, organo d’informazione russa. Il primo parla della creazione nel paese di una fabbrica per elementi superpesanti; il secondo denuncia che oltre 3.000 civili sono stati uccisi e 7.000 feriti in Afghanistan, durante il 2017; il terzo assicura che il Cremlino ha una risposta per contrastare i piani degli Stati Uniti per aumentare la loro presenza militare in Europa; il quarto rivela quale sarà la prossima provocazione relativa all’uso delle armi chimiche in Siria. 

Al fianco di Sputnik, non mancano i tweet rilanciati da RT (cioè condivisi da altri profili), come quello su Macron che minaccia di colpire Damasco se userà ancora questi strumenti di distruzione di massa.

Poi ci sono i tweet sulla politica italiana. Marione chiede se Renzi sapeva che Buzzi pagava il Pd. Alessandro Di Battista esalta @fanpage, perché insegna ai «giornaloni» come si fa il giornalismo; attacca Giannini, perché non capisce ancora come mai M5S continua a crescere a Roma; a proposito dei rimborsi, dice che i grillini hanno restituito 23 milioni di euro, mentre Berlusconi dava i soldi alla mafia attraverso Dell’Utri. Diversi tweet del Fatto Quotidiano sono rilanciati, insieme a quelli ufficiali di M5S, che fa un appello «ai partiti sanguisughe: prima di parlare, versate 23 milioni di euro su questo conto». Non manca l’appoggio alla Lega, con Antonio Bordin che critica il ministro della Giustizia Orlando per aver paragonato Traini a un terrorista delle Torri Gemelle. Quindi aggiunge che chi fomenta l’odio in Italia è la presidentessa della Camera Boldrini. Spesso questi account usano le stesse fonti, come Sputnik, RT, il giornalista siriano Naman Tracha, o rilanciano proprio gli stessi identici tweet.

Naturalmente l’Italia è una democrazia, e i suoi cittadini hanno il diritto di esprimere le opinioni che vogliono, votando i partiti che preferiscono. Ma se questi account erano gestiti da normali cittadini, che esercitavano i loro legittimi diritti politici, perché sono stati chiusi senza una parola dopo la nostra denuncia? Forse erano parte di un’operazione come quella condotta dalla Russia negli Usa durante le presidenziali del 2016?

Cinque account sono pochi: solo un campione. Ma il fatto che tre su cinque abbiano già chiuso dimostra che il fenomeno è vero, e chissà quanto più vasto. I 5 account di cui abbiamo parlato hanno scritto oltre 160.000 tweets. Molti per utenti normali, pochi per un attacco su larga scala. Bisogna però tenere presente che le interferenze negli Usa erano state condotte proprio così, con piccoli account insospettabili, al punto che il figlio di Donald Trump aveva rilanciato i tweet di un falso sito repubblicano creato in realtà dagli agenti russi. Quanti sono dunque gli account simili ai 5 che abbiamo denunciato, ancora attivi in Italia? E chi li gestisce davvero?

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Paolo Mastrolilli

martedì 6 febbraio 2018

Burrasche, comete e stelle cadenti. Meteorologia e Astronomia nell'800 Piemontese

ebook di Fulvio Romano

BURRASCHE, COMETE E STELLE CADENTI. Meteorologia e Astronomia nell'800 Piemontese.
 con una Postfazione dell'autore su "Noterelle di Cultura cuneese fine '900"

Il libro è frutto di una ricerca sulle origini della meteorologia e astronomia contemporanee in Italia, e in particolare in Piemonte, fondata su testi e documenti originali. Nell'Italia del dopo Unità la scuola, la cultura scientifica e le esperienze di laboratorio applicate all'insegnamento superiore ebbero un particolare rilievo e uno stuolo di professori, insieme a ricercatori dilettanti, parroci, farmacisti, seguiranno la spinta e l'entusiasmo di Francesco Denza, direttore dell'Osservatorio di Moncalieri e poi della Specola Vaticana, nel creare la prima rete nazionale di osservazioni meteo. Nel frattempo anche l'Astronomia italiana, sovente con gli stessi protagonisti delle citate ricerche meteo, si avviava con Schiaparelli, Denza e Secchi a diventare astrofisica. Un tema di ricerca che per alcuni anni unì gli sforzi sia dei primi meteorologi che dei nuovi astronomi fu quello dell'origine e della natura delle stelle cadenti, che appassionò per tutto l'800 i protagonisti, illustri ed umili, della nuova scienza. La postfazione dell'autore è dedicata al clima culturale e scientifico del Cuneese alla fine del secolo scorso, descritto dal punto di vista delle sue esperienze come direttore dell'Osservatorio astronomico del Liceo Scientifico di Cuneo, responsabile dell'Associazione per lo Sviluppo Culturale e Scientifico nel Cuneese e del rinato Osservatorio meteorologico storico.

Si acquista a questo link:      https://sell.streetlib.com/go/EkPtAnGUE Burrasche

lunedì 5 febbraio 2018

Ritorna l’inverno ( il tempo della settimana)

LA STAMPA

Cuneo

Neve in arrivo

Il sereno torna

solo da sabato

Appena archiviato un gennaio caldo, tra i più temperati da un secolo a questa parte, l’inverno si ripresenta in gran spolvero. Ha scelto per la sua ricomparsa (che a quanto pare durerà a lungo) questo giorno di Sant’Agata, invocata un tempo per far sciogliere l’acqua ancora ghiacciata delle «bealere». Riprendono invece i geli, notturni e non, e anche le temperature massime stenteranno a superare, nelle zone più al riparo, i 4-5 gradi.

Ritorna anche la neve. E non soltanto su tutto l’arco alpino, da Sud a Nord passando per l’Ovest, ma anche sulle pianure, in particolare quelle sotto il Po e ai confini con la Liguria. Responsabile di questo affondo invernale è un nucleo perturbato in arrivo da Sud Sud Ovest che già oggi dovrebbe portare qualche fiocco sugli altipiani meridionali per poi risalire via via nelle prossime ore su tutte le province distribuendo qua e là neve, nevischio o pioggia.

Più consistente l’accumulo previsto in quota, tra mezzo metro e un metro, soprattutto nell’arco meridionale, dalle Liguri fino alle Cozie. Mercoledì mattina ultime nevicate e quindi prime schiarite a partire dalla Vallée, e rimonta dell’alta pressione, con fenomeni di nebbie e foschie che riprendono da giovedì. Ancora disturbi sull’Alto Piemonte nella notte con venerdì, quindi un fine settimana sereno e algido per venti freddi da Nord-Est. 

Fulvio

Romano

sabato 3 febbraio 2018

Il fascino immortale della Dc ( Sorgi)

LA STAMPA


Cultura


Il fascino

immortale

della Dc

Abituati da tempo immemorabile alle campagne elettorali a base di accuse e insulti irripetibili, salutiamo con una certa sorpresa l’irrompere del termine «democristiano», usato ovviamente in senso spregiativo dai molti che non sanno o non ricordano più cosa fu e cosa rappresentò, nel bene e nel male, la lunga epoca italiana della Dc, coincidente con i 46 anni della Prima Repubblica, ma sopravvissuta anche dopo, non foss’altro come mentalità e come scuola di politica che ha lasciato ancora in giro e in servizio parecchi professionisti. Se solo si riflette sull’eco avuta dai novant’anni di Ciriaco De Mita, compiuti ieri con accompagnamento di interviste e ricordi in cui ha potuto tranquillamente rievocare i suoi anni di segretario e presidente del consiglio democristiano come una sorta di età dell’oro, si capisce che in fondo anche quelli che adoperano in negativo, magari senza averlo vissuto o conosciuto, la parola Dc, sotto sotto ne discutono con rispetto e perfino con un certo rimpianto, anche se magari non sanno di cosa parlano.

Solo Bersani, che accusa Renzi di aver cancellato la sinistra dal Pd e di lavorare per ricostruire la Democrazia cristiana, ammette che quella vera, e non la parodia di questi giorni, era una cosa seria.

Per il resto, Salvini accusa Di Maio di essere diventato democristiano, e poi insieme a Meloni rivolge la stessa accusa a Berlusconi, che in anni non troppo lontani, quando era un imprenditore, diceva di se stesso di essere «socialista a Milano», in quanto amico di Craxi, e «democristiano a Roma», dov’era facile e frequente vederlo salire e scendere per le scale di Piazza del Gesù, il palazzo-simbolo del potere scudocrociato, ormai dismesso. Poi c’è Tabacci, finalmente un vero democristiano, che con una mossa da maestro, offrendo il simbolo del suo mini-partito Centro democratico, uno degli eredi sopravvissuti in Parlamento, della vecchia «Balena bianca», ha consentito alla Bonino e ai radicali, cioè agli autori della prima vera grande sconfitta della Dc nel referendum del divorzio del 1974, di presentarsi alle elezioni in alleanza con il Pd. E la Boschi che, non fosse solo per ragioni geografiche (è nata in provincia di Arezzo,) ha mostrato varie volte in pubblico nostalgia di Fanfani.

Ovviamente in tutto questo gran parlare che si fa della Democrazia cristiana, anche a vanvera, non c’è alcun tentativo di approfondimento. I convegni che in tutti questi anni si sono svolti tra le facoltà di Scienze politiche e l’Istituto Sturzo sono spesso andati deserti, o hanno visto la partecipazione di un pubblico anziano e in qualche modo malinconico. Sarebbe interessante chiedere a Salvini, a Di Maio e Di Battista (Grillo no, scoperto da Pippo Baudo, la conosce e trovò solidarietà nella Dc quando i socialisti, trent’anni fa, lo cacciarono dalla Rai) cosa sanno, cos’hanno capito di quell’era ormai così lontana, dopo quasi un quarto di secolo di Seconda Repubblica. E anche a Renzi, nato politicamente tra gli scout, che erano uno dei tanti mondi collaterali, come le Acli, la Confagricoltura, la Confcommercio e un po’ tutto quel che cominciava per «Conf», esclusa la Confindustria, del sistema copernicano della Dc. Quando il leader Pd, allora ancora a Palazzo Chigi, nel 2016 accettò la sfida di De Mita in un faccia a faccia sul referendum costituzionale moderato da Mentana, la sensazione era di un confronto privo di sincronizzazione, l’ex-segretario Dc, con i suoi famosi «ragionamendi», essendo ancora fortemente radicato nel Novecento, e Renzi invece apparendo come il prodotto più recente e più estremo di una politica tutta giocata sulla comunicazione e gli slogan a effetto. Tal che, in un primo momento, Matteo provò a mostrare rispetto per Ciriaco, aspettando il passaggio adatto a dargli il colpo fatale. Ma a sorpresa, quando il momento arrivò, e l’anziano fu accusato dal giovane di aver cambiato posizione dal centrosinistra al centrodestra pur di restare in ballo, De Mita non si scompose: «Sei un miserabile - replicò - io sono nato e morirò democristiano, mentre tu si vede che non credi in niente!». 

Va da sé che De Mita, e nessuno dei vecchi leader dello scudocrociato, avrebbero sottoposto a referendum la riforma istituzionale. I referendum, come le commissioni di inchiesta (altro errore di cui Renzi, vedi le banche, non ha fatto in tempo a pentirsi), nella grammatica democristiana erano da evitare finché possibile, e al limite da concedere come sfogatoio alle opposizioni, in cambio della loro tradizionale collaborazione parlamentare. Nel quasi mezzo secolo (con qualche breve eccezione) di governi a guida Dc, la maggior preoccupazione dei presidenti del consiglio che si alternavano a Palazzo Chigi, da De Gasperi a Moro, Rumor, Colombo, Andreotti, Forlani e Cossiga, fino appunto a De Mita, con una turnazione assai frequente, erano i rapporti con Togliatti, Longo, Berlinguer, segretari del maggior partito comunista dell’Occidente, escluso per ragioni internazionali, il cosiddetto «fattore K», dalla partecipazione agli esecutivi. Relazioni sempre eccellenti, al di là di qualche cedimento alla propaganda, subito recuperato in nome del confronto considerato sempre necessario e della comune esperienza alla Costituente.

Può tornare, tutto questo? Difficile, se non impossibile, diciamo la verità. Ma una cosa su cui dovrebbero riflettere i leader del nostro tempo, intenti ad accusarsi a vicenda di essere democristiani, è che il sistema proporzionale, restaurato con il Rosatellum e tuttora vissuto come un’incognita, spinge tutti al centro: infatti è quel che sta accadendo a Berlusconi e Renzi, inseguiti da Di Maio che teme con ogni evidenza di ritrovarsi emarginato. Il proporzionale, in altre parole, è l’esatto contrario del maggioritario e del bipolarismo, la cornice in cui inutilmente gli stessi leader fingono ancora di muoversi, ben sapendo che non è più quel tempo. Così, se è difficile, o è quasi escluso che nella Terza Repubblica tornerà la Dc, per gli incoscienti che hanno fatto un passo indietro senza chiedersi quali sarebbero state le conseguenze, sarà indispensabile imparare, riscoprire, ridiventare anche loro un po’ democristiani.

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Marcello Sorgi


LA STAMPA

Cultura

Il fascino

immortale

della Dc

Abituati da tempo immemorabile alle campagne elettorali a base di accuse e insulti irripetibili, salutiamo con una certa sorpresa l’irrompere del termine «democristiano», usato ovviamente in senso spregiativo dai molti che non sanno o non ricordano più cosa fu e cosa rappresentò, nel bene e nel male, la lunga epoca italiana della Dc, coincidente con i 46 anni della Prima Repubblica, ma sopravvissuta anche dopo, non foss’altro come mentalità e come scuola di politica che ha lasciato ancora in giro e in servizio parecchi professionisti. Se solo si riflette sull’eco avuta dai novant’anni di Ciriaco De Mita, compiuti ieri con accompagnamento di interviste e ricordi in cui ha potuto tranquillamente rievocare i suoi anni di segretario e presidente del consiglio democristiano come una sorta di età dell’oro, si capisce che in fondo anche quelli che adoperano in negativo, magari senza averlo vissuto o conosciuto, la parola Dc, sotto sotto ne discutono con rispetto e perfino con un certo rimpianto, anche se magari non sanno di cosa parlano.

Solo Bersani, che accusa Renzi di aver cancellato la sinistra dal Pd e di lavorare per ricostruire la Democrazia cristiana, ammette che quella vera, e non la parodia di questi giorni, era una cosa seria.

Per il resto, Salvini accusa Di Maio di essere diventato democristiano, e poi insieme a Meloni rivolge la stessa accusa a Berlusconi, che in anni non troppo lontani, quando era un imprenditore, diceva di se stesso di essere «socialista a Milano», in quanto amico di Craxi, e «democristiano a Roma», dov’era facile e frequente vederlo salire e scendere per le scale di Piazza del Gesù, il palazzo-simbolo del potere scudocrociato, ormai dismesso. Poi c’è Tabacci, finalmente un vero democristiano, che con una mossa da maestro, offrendo il simbolo del suo mini-partito Centro democratico, uno degli eredi sopravvissuti in Parlamento, della vecchia «Balena bianca», ha consentito alla Bonino e ai radicali, cioè agli autori della prima vera grande sconfitta della Dc nel referendum del divorzio del 1974, di presentarsi alle elezioni in alleanza con il Pd. E la Boschi che, non fosse solo per ragioni geografiche (è nata in provincia di Arezzo,) ha mostrato varie volte in pubblico nostalgia di Fanfani.

Ovviamente in tutto questo gran parlare che si fa della Democrazia cristiana, anche a vanvera, non c’è alcun tentativo di approfondimento. I convegni che in tutti questi anni si sono svolti tra le facoltà di Scienze politiche e l’Istituto Sturzo sono spesso andati deserti, o hanno visto la partecipazione di un pubblico anziano e in qualche modo malinconico. Sarebbe interessante chiedere a Salvini, a Di Maio e Di Battista (Grillo no, scoperto da Pippo Baudo, la conosce e trovò solidarietà nella Dc quando i socialisti, trent’anni fa, lo cacciarono dalla Rai) cosa sanno, cos’hanno capito di quell’era ormai così lontana, dopo quasi un quarto di secolo di Seconda Repubblica. E anche a Renzi, nato politicamente tra gli scout, che erano uno dei tanti mondi collaterali, come le Acli, la Confagricoltura, la Confcommercio e un po’ tutto quel che cominciava per «Conf», esclusa la Confindustria, del sistema copernicano della Dc. Quando il leader Pd, allora ancora a Palazzo Chigi, nel 2016 accettò la sfida di De Mita in un faccia a faccia sul referendum costituzionale moderato da Mentana, la sensazione era di un confronto privo di sincronizzazione, l’ex-segretario Dc, con i suoi famosi «ragionamendi», essendo ancora fortemente radicato nel Novecento, e Renzi invece apparendo come il prodotto più recente e più estremo di una politica tutta giocata sulla comunicazione e gli slogan a effetto. Tal che, in un primo momento, Matteo provò a mostrare rispetto per Ciriaco, aspettando il passaggio adatto a dargli il colpo fatale. Ma a sorpresa, quando il momento arrivò, e l’anziano fu accusato dal giovane di aver cambiato posizione dal centrosinistra al centrodestra pur di restare in ballo, De Mita non si scompose: «Sei un miserabile - replicò - io sono nato e morirò democristiano, mentre tu si vede che non credi in niente!». 

Va da sé che De Mita, e nessuno dei vecchi leader dello scudocrociato, avrebbero sottoposto a referendum la riforma istituzionale. I referendum, come le commissioni di inchiesta (altro errore di cui Renzi, vedi le banche, non ha fatto in tempo a pentirsi), nella grammatica democristiana erano da evitare finché possibile, e al limite da concedere come sfogatoio alle opposizioni, in cambio della loro tradizionale collaborazione parlamentare. Nel quasi mezzo secolo (con qualche breve eccezione) di governi a guida Dc, la maggior preoccupazione dei presidenti del consiglio che si alternavano a Palazzo Chigi, da De Gasperi a Moro, Rumor, Colombo, Andreotti, Forlani e Cossiga, fino appunto a De Mita, con una turnazione assai frequente, erano i rapporti con Togliatti, Longo, Berlinguer, segretari del maggior partito comunista dell’Occidente, escluso per ragioni internazionali, il cosiddetto «fattore K», dalla partecipazione agli esecutivi. Relazioni sempre eccellenti, al di là di qualche cedimento alla propaganda, subito recuperato in nome del confronto considerato sempre necessario e della comune esperienza alla Costituente.

Può tornare, tutto questo? Difficile, se non impossibile, diciamo la verità. Ma una cosa su cui dovrebbero riflettere i leader del nostro tempo, intenti ad accusarsi a vicenda di essere democristiani, è che il sistema proporzionale, restaurato con il Rosatellum e tuttora vissuto come un’incognita, spinge tutti al centro: infatti è quel che sta accadendo a Berlusconi e Renzi, inseguiti da Di Maio che teme con ogni evidenza di ritrovarsi emarginato. Il proporzionale, in altre parole, è l’esatto contrario del maggioritario e del bipolarismo, la cornice in cui inutilmente gli stessi leader fingono ancora di muoversi, ben sapendo che non è più quel tempo. Così, se è difficile, o è quasi escluso che nella Terza Repubblica tornerà la Dc, per gli incoscienti che hanno fatto un passo indietro senza chiedersi quali sarebbero state le conseguenze, sarà indispensabile imparare, riscoprire, ridiventare anche loro un po’ democristiani.

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Marcello Sorgi