Cultura
Cosa rischia
MATTEO
a ottobre
Il primo ministro di una grande nazione capitalista, democratica, europea, indice un referendum sulla permanenza del suo Paese nell’Unione europea. Lo fa insidiato da un partito di opposizione antieuropeo, che lo tormenta quotidianamente e cresce nei consensi, anche se non è riuscito a batterlo alle elezioni. A sorpresa, una parte del partito del primo ministro, guidata da un suo avversario interno, si schiera con gli antieuropei.
Si vota, e l’alleanza tra nemici interni e esterni del primo ministro vince, costringendolo alle dimissioni. È accaduto in Gran Bretagna nella notte tra giovedì 23 e ieri. Potrebbe accadere anche in Italia, al referendum costituzionale dei primi di ottobre?
Escluderlo è difficile, anche se Matteo Renzi sostiene che la consultazione sulla Grande Riforma sarà l’occasione della rivincita, dopo il deludente risultato del 19 giugno. In Italia come in Inghilterra, a soli quattro giorni di distanza, l’alleanza di tutti contro l’uomo da battere si è riformata con un’inquietante sequenza di dettagli che potrebbero ripetersi ancora. Come Renzi, anche Cameron aveva messo sul piatto della scommessa l’intera posta della sua vita politica, annunciando che avrebbe lasciato, come ha fatto, un minuto dopo l’eventuale sconfitta. Renzi, già ad aprile, nel referendum sulle trivelle, si era trovato a fronteggiare l’alleanza dei governatori regionali, quasi tutti del suo partito, che in barba al suo invito a disertare le urne, avevano portato a votare quindici milioni e mezzo di cittadini. E anche Cameron ha dovuto difendersi dall’inedita alleanza di Nigel Farage, il leader del «Leave», cioè dell’uscita dall’Europa, con Boris Johnson, l’ex-sindaco conservatore di Londra, entrato nella partita con il chiaro obiettivo di prendere il posto del primo ministro sconfitto, e adesso, dopo le dimissioni di Cameron, a un passo dal realizzare il suo obiettivo. Inoltre, come Renzi, Cameron ha scelto la strada della personalizzazione del voto, non calcolando che così avrebbe spostato l’oggetto della consultazione, da quello formalmente indicato sulle schede - restare nell’Unione Europea o uscirne -, al presente e al futuro suo e del governo. In altre parole, Cameron s’è impiccato da solo a una sfida che nessuno gli aveva suggerito, e in tanti al contrario gli avevano sconsigliato.
Qui finiscono le analogie tra Londra e Roma, e comincia la specificità del caso italiano. Renzi, si sa, è convinto che ci sia differenza tra le elezioni amministrative che hanno segnato la sua prima, cocente delusione elettorale, la vittoria del Movimento 5 stelle grazie anche all’appoggio della destra, e il «suo» referendum costituzionale. Un conto era il voto nelle città, a cui il Pd arrivava logorato da un’ondata di corruzione, e a parte Milano, con candidature non proprio competitive. E un altro conto sarà quando gli elettori dovranno decidere se cambiare, o lasciare intatto, un sistema politico che non funziona, tagliando i membri della casta, imponendo il doppio lavoro ai sopravvissuti e mettendo il governo, finalmente scelto per davvero dagli elettori, in condizioni di realizzare il proprio programma senza lungaggini e compromessi umilianti. Diventare l’uomo-simbolo di questa battaglia, ritiene Renzi, gli consentirebbe di rivestire i panni del rottamatore che così popolare lo avevano reso agli occhi dell’elettorato che due anni fa lo votò al 40,8 per cento, e domenica lo ha in parte tradito preferendogli i 5 stelle.
Il ragionamento sarebbe ineccepibile se a ottobre si votasse solo e soltanto sulla Grande Riforma e non sul complesso quadro politico italiano, in rapida evoluzione. Con le sue doti di comunicatore, non c’è dubbio che Renzi sarebbe capace di presentare la scelta agli elettori in termini assai convincenti. Ma cosa succederebbe se invece, contro di lui, scendesse in campo uno schieramento largo e variato, dai professori del No capaci di fare a pezzi scientificamente la riforma, alla minoranza del Pd che con D’Alema è schierata con il No, ai 5 stelle, al centrodestra in tutte le sue articolazioni, comprese, sebbene non del tutto, quelle che sostengono la sua maggioranza? È esattamente questo, infatti, che si prepara, e Renzi non può fingere di non capirlo. Né può ignorare che le contropartite che gli vengono chieste - la modifica della legge elettorale spostando il premio dalla lista alla coalizione vincente, la rinuncia al doppio incarico di segretario del Pd e presidente del Consiglio - seppure accettate (ma al momento sembra di no), non gli garantirebbero certo il risultato di urne in cui gli elettori, come a Torino, si divertono a sparare sul conducente.
I sistemi presidenziali, i governi scelti dagli elettori trasformando con meccanismi maggioritari o premi elettorali le minoranze in maggioranze, i Parlamenti riservati a due, tre, massimo quattro partiti, e insomma quel che la riforma di Renzi vorrebbe introdurre in Italia, per tanto tempo, va riconosciuto, hanno consentito di governare il disordine delle società mutanti, il tramonto del capitalismo industriale, gli esiti, assai diversi dalle previsioni, di trent’anni circa di globalizzazione. Ma adesso, tutt’insieme, stanno mostrando debolezze, dopo un decennio di crisi economica, deflazione, stagnazione, rallentamento dei consumi, e impoverimento delle classi medie. Si vede in Francia, dove due presidenze opposte, Sarkozy e Hollande, finiscono consumandosi allo stesso modo. S’è visto in Austria, per citare il precedente più recente. È successo, incredibilmente, pure nella vecchia e tradizionale Inghilterra. E a novembre, Dio non voglia, potrebbe accadere nell’America di Trump.
Quanto a noi, appena usciti da un passaggio elettorale carico di presagi e malgrado ciò interpretato come l’inizio di una rivoluzione, siamo a un bivio complicato. Per Renzi, sulla strada del cambiamento, c’è il rischio di finire battuto dalla grande alleanza antirenzi. Cementata, ironia della sorte, dal referendum che dovrebbe introdurre il nuovo ordinamento previsto dalla riforma. D’altra parte, al punto in cui è arrivato, gli è difficile far marcia indietro. E verso dove, poi?
In Italia esisteva un partito governativo per vocazione, né di destra né di sinistra, interclassista, che cercava le sue alleanze in Parlamento e gestiva i governi possibili, in nome di una stabilità spesso degenerata in immobilismo: era la Dc. Rimpiangerla è difficile, riproporla, e perfino somigliarle, impossibile. Ma la prudenza delle sindache stellate e la distanza di Grillo da Farage, in questi giorni, fanno riflettere. Tra queste, e l’impazienza di Renzi per il referendum, non c’è dubbio su chi ricordi di più l’intuito, la saggezza e la furbizia dei vecchi democristiani.
Marcello Sorgi