Annunciato ieri dal nuovo, duro scontro personale tra Enrico Letta e Matteo Renzi, il congresso del Pd è cominciato molto prima della scadenza ravvicinata che il segretario-premier aveva offerto ai suoi avversari nell’ultima direzione. La novità è che rispetto alle volte precedenti - e alla tormentata esistenza del partito fondato nel 2007 da Veltroni e sottoposto, in soli otto anni, a ben cinque cambi di leader con modalità da rodeo e disarcionamenti di quelli che non si vedevano neppure nella Prima Repubblica -, non sarà una riedizione della tradizionale partita tra post-comunisti e post-democristiani, alternatisi finora al vertice del partito tra fragili tregue correntizie e guerriglie permanenti. No, sarà un vero congresso Dc, con due candidati - appunto Renzi e Letta - che vengono dalla stessa matrice cattolica di sinistra, e con i comunisti, o quel che ne rimane, nella parte che a suo tempo giocavano i dorotei, il ventre molle dello Scudocrociato, che sapevano sempre fiutare l’aria e schierarsi in tempo nei momenti di svolta.
Per Letta l’inizio della corsa e la fine dell’esilio francese in cui si era ritirato dopo la brusca esclusione da Palazzo Chigi - il famoso tweet «Enricostaisereno» seguito dall’apertura della crisi da parte di Renzi - datano poco più di un mese fa, il 12 aprile. In quella data l’ex-premier, dal suo studio di professore a Sciences Po a Parigi, rilascia un’intervista alla «Stampa» in cui annuncia che voterà «Sì», in accordo dunque con Renzi e la sua riforma, al referendum costituzionale di ottobre; e invece, in dissenso dalla campagna astensionista del premier, tornerà invece in Italia il 17 aprile per votare «No» alla consultazione sulle trivelle. Cinque settimane dopo, il 21 maggio, quattro giorni fa, il leader della minoranza Pd Bersani, in un’altra intervista alla «Stampa», attacca Renzi per l’eccessiva personalizzazione data sul referendum e la sovrapposizione tra le due campagne che può danneggiare la corsa per i sindaci. E a una domanda su Speranza e Letta, i due possibili candidati anti-Renzi alle prossime assise Democrat, lascia intendere che il primo, rispettabilissimo, non è in discussione, mentre il secondo potrebbe essere l’uomo adatto per separare il ruolo del premier da quello del segretario del partito. Se a ciò si aggiunge che Bersani, nell’intervista, insiste sull’errore di Renzi di legare le sorti del governo all’esito del voto referendario e sostiene che anche in caso di vittoria del «No» la legislatura dovrebbe proseguire, la strategia precongressuale degli avversari del leader è chiaramente delineata. Al primo punto ci sarà la difesa delle riforme costituzionali che anche gli esponenti della minoranza Pd hanno votato in Parlamento, seppure considerandole «perfettibili». Così che se Renzi a ottobre dovesse andare incontro a una sconfitta, non si potrà dire che è stata colpa loro. Al secondo, la garanzia che chi nel Pd dovesse schierarsi con il «No» non dovrà essere trattato da reietto. Al terzo, la ridefinizione delle regole di convivenza interna che da tempo Bersani e i bersaniani rivendicano, ripetendo che non esiste più uno spazio per la discussione interna e il partito è ridotto a cinghia di trasmissione dei «tweet» del segretario, il quale poi va a braccetto con notabili locali che due anni fa avrebbe rottamato e si accorda con pezzi dell’ex-centrodestra come Verdini, assurti al ruolo di alleati privilegiati e in grado di snaturare l’originaria anima di centrosinistra del Pd. Per una battaglia come questa, va da sé, Letta è un candidato perfetto. Nonché per un eventuale ritorno a Palazzo Chigi, se le cose a ottobre per Renzi dovessero andare proprio male, con il governo, oltre che il partito, terremotati da un’eventuale vittoria del «No», e il Capo dello Stato nelle condizioni di dover costruire un esecutivo di emergenza, per rattoppare lo sbrego istituzionale, rimettere le mani sulla legge elettorale (che nel frattempo potrebbe essere in parte cassata dalla Corte costituzionale) e portare il Paese a elezioni alla scadenza naturale del 2018. Sono scenari di cui si parla, in questi giorni, nei corridoi semi deserti del Parlamento, mentre ogni giorno una polemica, uno scambio di accuse, un annuncio di vendetta dilania il maggior partito di governo. I democristiani che affollano il partito, formalmente, ma solo formalmente, renzianizzato, sentono l’odore del sangue e non vedono l’ora della sfida. I due toscani, Matteo e Enrico, il fiorentino e il pisano, sembrano fatti apposta per scendere nell’arena congressuale. Sebbene, a parte le inguaribili nostalgie dc, della Balena bianca, del partitone che sapeva dividersi ma anche ricomporsi, sia ormai rimasto ben poco. I due avversari non somigliano né ai «gemelli di San Ginesio» Forlani e De Mita, che si alternarono per oltre un ventennio sullo scranno più alto di piazza del Gesù, né ai «cavalli di razza» Fanfani e Moro, divisi dal potere e uniti contro la «linea della fermezza» nella tragica primavera brigatista del ’78. Non a caso, quando gli fu suggerito di prenderlo come ministro degli Esteri nel suo governo, Renzi rifiutò anche soltanto di ipotizzare la proposta, che forse Letta avrebbe rifiutato. Di lì è partita l’ultima guerra democristiana di questi due ex-ragazzi, cresciuti nel mito dei loro padri. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI