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Giustizia a tentoni
C’è un filmato che riprende l’ex ministro Gianni De Michelis mentre, ai poveri ingenui che ricercano la verità su Ustica, risponde così: «Capisco la passione che ci mettete, ma è una passione mal spesa».
De Michelis continua spiegando che ci sono cose che stanno «sopra il tavolo» e altre che stanno «sotto il tavolo», e conclude: «Non è che quello che c’è sotto il tavolo tu lo devi spiegare tutti i giorni. Ci sono delle cose che non possono e non devono avere delle risposte».
Il filmato lo potete vedere su You Tube. Dove troverete anche immagini e parole di Francesco Cossiga, ex ministro degli Interni ed ex presidente della Repubblica, che avverte del pericolo in cui incorrono i giornalisti che si ostinano a tentar di capire come andarono le cose quel 27 giugno 1980: «Se qualche giornalista insiste», dice, gli potrebbe capitare «qualche incidente in macchina».
Se queste furono le parole e i consigli dei più alti esponenti dello Stato - e lo furono - non c’è da stupirsi se la magistratura è arrivata, in trentatrè anni, a sentenze contraddittorie. Un giudice istruttore, Rosario Priore, che chiude le indagini scrivendo che il Dc9 fu abbattuto da un missile anche se i periti da lui stesso nominati avevano concluso parlando di una bomba nella toilette dell’aereo. E la Cassazione civile che ancora sposa la tesi del missile, condannando lo Stato al risarcimento, nonostante la giustizia penale abbia finito il suo corso sentenziando che le cause del disastro restano ignote e assolvendo i generali dell’Aeronautica accusati di reticenze e menzogne.
Non c’è da stupirsi, di queste contraddizioni. Non sono frutto di un caso di malagiustizia. I giudici, penali e civili, sono andati a tentoni, senza la possibilità di indagare fino in fondo, perché ci sono cose che possono stare sopra il tavolo e altre che devono stare sotto il tavolo. E perché a chi si mette in testa di ficcare il naso in faccende che non lo riguardano, con «una passione mal spesa», potrebbe capitare «qualche incidente in macchina». Questa è la logica sacrale del segreto di Stato. Della ragion di Stato.
Nella sua seconda vita, quella del picconatore, Cossiga a un certo punto disse che quell’aereo non cadde per via di una bomba (e tanto meno per «cedimento strutturale», la prima ignobile spiegazione che portò al fallimento dell’Itavia) ma per un missile sganciato per errore da un caccia militare francese, che voleva abbattere un Mig sul quale volava il dittatore libico Gheddafi. «Un’azione di guerra non dichiarata», secondo le testuali parole del giudice Rosario Priore.
Dicono che Cossiga abbia cominciato a dire pane al pane (o a dar di matto, secondo i punti di vista) per il rimorso mai spento che gli provocava la fine di Aldo Moro. Cioè per quello che restava nella sua coscienza di un altro terribile episodio dell’Italia della prima Repubblica. Sarà. Di certo c’è che l’Italia ha troppe cose rimaste sotto il tavolo: Ustica è il capitolo di un libro nero che narra anche di piazza Fontana, di piazza della Loggia, della strage alla stazione di Bologna, e così via. Troppo sangue che non ha avuto giustizia per via della «ragion di Stato» che ha impedito alla magistratura di arrivare alla verità.
Condannando lo Stato a risarcire le vittime, i giudici della Cassazione civile hanno voluto dire con forza che c’è anche una «ragion del dolore» di tanti cittadini italiani che non debbono sentirsi di serie B. E forse hanno voluto anche dire quel che pensiamo tutti, e cioè che ormai davvero non ci sono più motivi perché tante pagine oscure, che non appartengono più alla cronaca ma alla storia, debbano restare avvolte nel mistero.
Michele Brambilla
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