Cultura
I partiti
dominati
dai capi
È inutile sorprendersi per quanto è successo negli ultimi giorni e rischia ancora di accadere fino a domani, termine ultimo per la presentazione delle liste elettorali.
I partiti personali, come quello fondato nel 1994 da Berlusconi e copiato in questa occasione da Renzi e Di Maio, in Italia purtroppo non sono una novità. Né lo è il metodo ormai collaudato di approfittare delle elezioni per mandare in Parlamento solo fedelissimi che devono obbedire sempre al capo, costi quel che costi, e emarginare i possibili dissidenti. Il fatto che Berlusconi, negli anni, abbia dovuto subire un certo numero di «tradimenti», come li chiama lui, giunti a mettere in crisi più volte i suoi governi, non vuol dire che il suo sistema non funzioni o si sia usurato nel tempo; semmai che esiste sempre, in democrazia, anche in una democrazia ridotta come la nostra, un certo tasso di imprevedibilità e di vitalità, che ne garantisce la riscossa rispetto ai disegni apparentemente invincibili dei leader carismatici: forme di «dispotismo», li giudicava quasi un quarto di secolo fa proprio su «La Stampa» Norberto Bobbio, presagendone gli effetti funesti.
Da allora a oggi, da quando Bobbio definì Forza Italia «primo partito personale di massa», annotando del suo fondatore «la perizia da vecchio comico», e non immaginando neppure lontanamente che a un certo punto sarebbe arrivato un comico vero a sbaragliare il campo, la sola differenza è che per quanto tanti ci avessero provato, solo Berlusconi era riuscito a tenere in vita il suo partito-azienda, assistendo soddisfatto alle cadute di avversari interni e esterni e improbabili imitatori. Inoltre, a contrastare la novità imposta dall’ex Cavaliere, per decenni ma con fortune alterne era rimasto il centrosinistra, legato ancora, seppure con vistose eccezioni e ripensamenti, a una visione più classica della democrazia parlamentare. Sempre Bobbio non a caso ammoniva: «Il partito creato da una persona è in contrasto con il partito in senso proprio che consiste in un’associazione di persone».
Come sia potuto accadere, nel giro di una settimana, che ciò che era apparso impossibile per tanto tempo sia diventato realtà, non è ancora chiaro del tutto. Fatto sta che Renzi, dopo aver promesso e ripromesso che avrebbe abbandonato la modalità «uomo solo al comando», per scegliere le parole d’ordine del pluralismo e della squadra, in un paio di nottate ha spianato le minoranze interne del Pd e ha riscritto le sue liste, inzeppandole di fedelissimi e riservando agli alleati e a chi non la pensa come lui appena qualche decina di candidati sicuri, cioè in grado di essere eletti, rispetto ai duecento, più o meno, che conta di portare ai suoi ordini alla Camera e al Senato. Più o meno lo stesso ha fatto Di Maio, nelle stesse ore in cui Grillo prendeva platealmente le distanze dal Movimento di cui è fondatore e garante e annunciava di tornare a dedicarsi agli amati spettacoli teatrali e alle «utopie». Al contrario, il «capo politico» dei 5 Stelle, avuti i risultati delle primarie on-line, li ha corretti e chiusi in un cassetto, e annunciando di persona i nomi dei suoi candidati, ha tacitato bruscamente le proteste che venivano dal territorio e da quelli che tuttora credono che a decidere su tutto sia la base pentastellata, e «uno vale uno» sia rimasta la regola principale di M5S.
Ai nastri di partenza della campagna elettorale, e ormai a un solo mese dal voto del 4 marzo, si è così materializzato un estremo paradosso: Berlusconi, per stanchezza e insieme per astuzia, si prepara ad abbandonare il meccanismo autoritario del «partito personale», cucendosi addosso il personaggio del nonnetto che volentieri si sarebbe ritirato, ma deve tornare in campo per salvare il Paese. Mentre l’erede della tradizione novecentesca dei partiti di massa - Renzi -, e quello della neonata finta democrazia telematica - Di Maio -, da sponde opposte confluiscono sull’ex modello berlusconiano, che gli elettori hanno già mostrato di rifiutare con la crescente e larghissima astensione dalle urne.
A questo punto l’Italia non potrà che apparire di nuovo come un Paese anomalo. Altrove, infatti, dalla Spagna alla Francia alla Germania, per citare i grandi Paesi dove s’è votato da poco, sono stati i partiti di governo a battersi anche a costi politici notevoli contro l’insidia dei movimenti populisti antieuropei. Qui a difendere l’Europa e le sue regole, severe quante necessarie, alla fine resteranno il vecchio Silvio e il paziente e prudente Gentiloni.
Marcello Sorgi