Cultura
Addio a Mario Vegetti
l’utopia di Platone
e i suoi chiaroscuri
In un’intervista di alcuni anni fa ci aveva detto che Aureliano Buendía, l’eroe di Cent’anni di solitudine «che nella sua vita ha tentato 32 rivoluzioni e le ha fallite tutte, è l’emblema del platonismo di ogni epoca». A Platone e alla sua opera Mario Vegetti, morto domenica a Milano a 81 anni da poco compiuti, ha dedicato gran parte del suo lavoro di storico della filosofia antica, tra i più profondi che abbiamo avuto in Italia, senza arretrare di fronte agli aspetti più controversi del suo pensiero.
Professore per trent’anni all’Università di Pavia, dove era stato allievo di Enzo Paci e si era laureato con una tesi su Tucidide, proprio dall’impostazione metodologica dello storico ateniese, che intendeva la sua indagine come ricerca delle cause, aveva sviluppato un interesse per la scienza antica, guidato dall’incontro con Ludovico Geymonat e nutrito dagli studi su Galeno e sulle opere biologiche di Aristotele. Tra i contributi più stimolanti, generati da questo approccio, Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), dove individuava i due strumenti, della dissezione anatomica e della scrittura, che hanno contribuito alla classificazione e all’organizzazione del sapere, e quindi alla razionalità scientifica occidentale. Nello stesso tempo, dalla lettura di Jean-Pierre Vernant traeva l’attitudine a pensare il mito non come l’opposto della ragione, secondo la lettura ottocentesca consacrata dal classico di Wilhelm Neste Vom Mythos zum Logos, ma come un elemento che alla ragione si intreccia inestricabilmente, dando vita a forme complesse di cui è possibile sondare la stratigrafia.
All’opera di Platone era arrivato sulla scorta di un’attenzione crescente per le implicazioni etico-politiche del pensiero antico (su L’etica degli antichi aveva pubblicato un importante volume nel 1989 da Laterza). Della Repubblica aveva curato una monumentale edizione commentata in sette volumi, uscita tra il 1998 e il 2007 per Bibliopolis, e al suo modello ideale di società giusta aveva dedicato tra gli ultimi titoli Un paradigma in cielo (Carocci, 2009), storia delle interpretazioni politiche a cui l’utopia platonica è andata incontro nei secoli: visione filosofica di un altro mondo possibile, secondo Kant, ma anche matrice di tutte le derive totalitarie, come è stata stroncata da Popper. Vegetti riconosceva in Platone entrambi gli aspetti, il programma illuministico del sapere al potere ma delineato con una radicalità estrema, che è sempre stata sentita come un «elemento perturbante», e che lo oppone al «riformismo» di Aristotele. Un modello di valore ideale, a cui sempre guardare, ma senza la tentazione di tradurlo in pratica. Per non fare (se non peggio) la fine di Aureliano Buendía.
Maurizio Assalto