ebook di Fulvio Romano

giovedì 27 settembre 2018

Pensiero magico e lessico zero nel linguaggio giallo-verde

LA STAMPA

Cultura

il potere magico delle parole

nel linguaggio giallo-verde

Massimiliano Panarari

Il populismo e la sua narrativa si fondano anche sul «pensiero magico». Con l’arrivo al potere dei due partiti della «democrazia populista» (come la chiamava il politologo Robert Dahl) ci troviamo dentro una fase completamente nuova. E l’Italia torna a essere un laboratorio della crisi della democrazia rappresentativa.

Si tratta di uno stadio talmente inedito da annichilire quasi l’opposizione politico-parlamentare, producendo una crisi esistenziale di quei partiti di sistema (il Pd e Forza Italia) che cercano di contrastare la Lega e il Movimento 5 Stelle con gli strumenti della politica tradizionale e «razionale». Invece, questa è effettivamente la Terza Repubblica: non nel senso dell’approvazione di una qualche revisione costituzionale (almeno per il momento), ma dell’autentica rivoluzione in corso nel linguaggio e nelle forme del fare politica che – specie ora – sono sostanza.

Il pensiero magico, studiato da generazioni di antropologi e da psicologi come Jean Piaget, è un processo cognitivo prelogico in cui non viene messo bene a fuoco, o risulta alterato, il nesso causa-effetto. E non appartiene unicamente alle società primitive, ma capita a ciascun individuo di farvi ricorso durante la vita. La postmodernità, tra relativismo spinto e intercambiabilità delle interpretazioni, lo ha riportato in auge ampiamente, come mostrano la postverità e le fake news. E oggi, infatti, è dato vedere un pensiero magico prepotentemente all’opera nella comunicazione e nella propaganda del governo legastellato che, nella sua campagna elettorale permanente, sembra farsi beffe del principio di non contraddizione come di quello di realtà. Dalla polemica con gli alti funzionari che non si piegano agli annunci-promesse di vari ministri fino all’insofferenza per i numeri che non tornano nei provvedimenti più importanti e nel Def, è come se andasse in scena uno scontro tra la razionalità tecnico-politica (ritenuta troppo «calcolante») e un irrazionalismo politico-seduttivo preoccupato solo del consenso, e infastidito da limitazioni e rispetto delle compatibilità (le cifre del bilancio e del debito pubblico come il primato dello Stato di diritto). Giustappunto perché il neopopulismo postmoderno è incantatore e (ferocemente) anti-illuministico.

Nel pensiero magico talune parole hanno poteri miracolosi e soprannaturali, e funzionano come dei totem. Così, archiviato il «politichese» della Prima Repubblica e il linguaggio marketing-oriented della Seconda, siamo arrivati al «lessico zero» di Di Maio e Salvini. Vale a dire una politica linguistica che vuole azzerare la possibilità del dibattito, con concetti tanto basici che diventa impossibile dichiararsi contro (e in questo modo, nuovamente, si annulla l’opposizione, che ha un problema culturale e semantico, oltre che politico). Ed ecco allora: la «manovra del Popolo» (con il «popolo» vocabolo totem per eccellenza, ripetuto in ogni occasione), l’«azzeramento della povertà», l’«Italia sicura» d’ora in poi; e, anche se assomiglierà molto al reddito di inclusione degli esecutivi di centrosinistra, quello nuovo sarà di «cittadinanza», parolina magica e diretta.

Il neopopulismo disintermedia ed elimina (magicamente) la complessità e le problematicità del reale, presentandosi come capace di andare alla radice delle questioni e proponendo «soluzioni» che sfidano la logica (proprio perché basate su relazioni causali spesso arbitrarie). Che riscuotono, come mostrano il clima d’opinione e i sondaggi, moltissimi applausi. E hanno inaugurato un terreno di gioco totalmente altro rispetto alla concezione liberaldemocratica e socialdemocratica della politica. Un perimetro davvero alternativo (e preoccupante), come i fattoidi che vengono raccontati dallo storytelling sciamanico di certi politici apprendisti stregoni.

giovedì 13 settembre 2018

LA VOGLIA DI FERMARE I GIORNALI

LA STAMPA

Cultura

LA VOGLIA DI FERMARE

I GIORNALI

Alberto Mingardi 

Ieri il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Fra le altre cose, essa prevede che ogni Stato-membro debba assicurarsi che i produttori di contenuti, gli editori, ricevano compensi «consoni ed equi» per l’uso dei loro materiali da parte delle piattaforme on line. Semplificando, hanno vinto editori e partiti «tradizionali» e ha perso la strana coalizione formata dai cosiddetti «giganti del web» e dai partiti anti-establishment, fra cui Lega e Cinque Stelle. Questi ultimi, che solitamente hanno scarsa simpatia per il capitalismo, specie se americano, si erano allineati con le istanze della Silicon Valley.

Intanto, in Italia il ministro Di Maio annuncia una lettera alle società partecipate per indurle a smettere di fare pubblicità sui quotidiani. Si discute poi di eliminare l’obbligo di pubblicazione per la Pa (per esempio per gli avvisi di gara), con l’obiettivo dichiarato di colpire le imprese editoriali.

I cosiddetti populisti hanno per anni accusato i loro predecessori di voler asservire l’informazione: pensate alle polemiche, spesso condivisibili, sull’«occupazione» della Rai. Pensavamo fossero critiche, invece era un programma. L’attuale governo sta facendo esattamente ciò che rimproverava agli odiati Renzi e Berlusconi: prendere il controllo della Rai, usare la pubblicità delle partecipate a fini politici.

Più in generale, se la Silicon Valley non ama né Donald Trump né i suoi epigoni europei, questi ultimi sono convinti che il loro successo dipenda dal superamento dei media tradizionali. Attraverso i social, essi costruiscono, giorno dopo giorno, quel rapporto diretto fra elettori e eletti che è un ingrediente essenziale della loro ideologia. L’obiettivo è quello di mettere in scena una democrazia senza bardature, dove la rigidità delle regole non è più un ostacolo alla reazione immediata alle sollecitazioni del «popolo». Che poi del popolo considerino solo la frazione che li inonda di «like», non importa. E non importa neppure che «fare le leggi», pure quando le fa il governo, continui a richiedere un tempo incommensurabilmente diverso da quello del web. Ciò che conta è dare l’impressione di un’attenzione istantanea.

Piaccia o non piaccia, la storia della democrazia è anche la storia dei giornali. Il dibattito politico ha bisogno di confrontarsi con un’opinione pubblica informata e vivace. L’opinione pubblica, sosteneva Walter Bagehot, è «l’opinione di quel signore calvo seduto in fondo all’autobus». Con questo, voleva dire che l’opinione pubblica non coincide necessariamente con le idee delle classi dirigenti, e nemmeno con quelle delle persone più colte: coincide con il pensiero delle persone «comuni» che vogliono dire qualcosa sul modo in cui vengono condotti gli affari pubblici ma sentono anche il bisogno di farlo a ragion veduta.

La libera stampa non è perfetta, come nulla è perfetto a questo mondo. Essa è però la precondizione di un’opinione pubblica informata: che ha bisogno di una polifonia di opinioni ma anche di chi metta risorse e competenze per dare notizie, soprattutto se sgradite a chi governa.

Più che le singole iniziative, colpisce quindi il disegno, la guerra ai giornali. Per alcuni è il sogno romantico della democrazia diretta, senza filtri. Quei «filtri» sono tuttavia indispensabili per avere una informazione non frammentaria, che consenta di conoscere davvero quel che viene deliberato ed eventualmente di reagire ad abusi e soprusi. C’è un motivo se il potere vuole avere un rapporto diretto col singolo individuo. E’ che il singolo individuo, apparentemente emancipato da tutte quelle strutture che si interpongono fra lui e il governo, in realtà è disarmato. Inerme. Il suddito ideale.

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martedì 11 settembre 2018

i populisti avanzano perché gli avversari non si uniscono contro di loro

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Cultura

i populisti avanzano

perché gli avversari

non si uniscono contro di loro

Giovanni Sabbatucci

Le preoccupazioni dei democratici europei circa l’arrivo, con le elezioni di domenica, di una marea bruna destinata a sommergere la civilissima Svezia si sono rivelate, per fortuna, alquanto esagerate. Il Partito socialdemocratico ha perso qualche punto (dal 31 al 28,3%), ma ha mantenuto un primato che detiene ininterrottamente dal 1932. Il Partito «Svezia democratica» di Jimmie Akesson – populista di destra anti-immigrati con qualche traccia mai del tutto cancellata di un originario filo-nazismo – ha guadagnato il 3,7, arrivando al 17,6, ma non si può dire che abbia sfondato. Conservatori-moderati e partiti minori hanno sostanzialmente tenuto. 

Gli equilibri usciti dalle urne svedesi non sono dunque paragonabili a quelli dei Paesi dell’Est, scivolati in pochi anni alla condizione di democrazie illiberali e governati da maggioranze apparentemente inattaccabili. I numeri (fatta salva l’eccezione dell’anomalo «bi-populismo» italiano) ci rimandano piuttosto alla distribuzione delle forze che si sono affermate in questi ultimi anni nelle democrazie dell’Europa Occidentale, dove i partiti della destra nazionalista, anche dopo i recenti exploit, si collocano fra il 15 e il 25% del voto popolare: 21,3 % in Francia, 12,6 in Germania, 13 in Olanda, 21 in Danimarca, 17 in Finlandia (senza contare i neonazisti dichiarati, come Alba dorata in Grecia e Jobbick in Ungheria). Sono dati che sicuramente allarmano, anche perché si collegano in gran parte alla spinosa questione dei migranti, ma che in sé, ove restassero immutati, non dovrebbero minacciare il funzionamento della democrazia né impedire la formazione di maggioranze: del resto, se le forze anti-sistema occupano, poniamo, il 20% dello spettro politico, questo significa che il restante 80% resta, in teoria, disponibile per coalizioni di governo democratiche ed europeiste.

In teoria, appunto. Nella realtà il varo di governi di larga coalizione trova spesso ostacoli difficilmente sormontabili. Ciò accade per comprensibili differenze e diffidenze legate alle diverse matrici ideologiche, seppure ormai sbiadite, alle diverse proposte in materia di politica economica e sociale. Ma anche perché, in presenza di un rapporto di alleanza che tende a eternizzarsi, o a esaurirsi nelle vetuste retoriche frontiste, i possibili contraenti del patto temono, non a torto, di logorarsi, di perdere la loro identità, di esporsi indifesi all’attacco delle forze anti-sistema che sfruttano senza remore i vantaggi dell’opposizione irresponsabile. 

Si spiega in questa chiave la svolta che sembra delinearsi nella politica tedesca, con immediati e pesanti riflessi sull’intera scena europea. Costretta a convivere al governo con un partner socialista frustrato e insofferente, incalzata dalla concorrenza nazional-populista di Alternative für Deutschland, Angela Merkel sembra seriamente intenzionata a raccogliere i suggerimenti che le giungono dalla fronda interna al suo stesso partito, la Cdu, e più ancora da quella del partito-fratello (la Csu bavarese). La cancelliera – indicata fino a pochi giorni fa come riferimento indiscusso del fronte europeista e anti-sovranista – rinuncerebbe a opporsi frontalmente ai suoi critici e aspiranti successori; e mirerebbe piuttosto ad assecondarne le spinte, come in un match di judo, per poi assorbirle e depotenziarle, riportando il partito ai suoi originari connotati di forza moderata e ricostituendo un fronte conservatore europeo vincente in vista delle elezioni della primavera prossima. 

È una manovra classica della politica. E la storia, come è stato osservato, offre parecchi esempi in proposito: per restare all’Italia, possiamo pensare a Giolitti che cerca prima di cooptare i socialisti e poi di ammansire i fascisti (con i risultati che sappiamo). Quel che è certo però è che si tratta di operazioni ad alto rischio, che hanno qualche possibilità di riuscita solo se il traghettatore è in posizione di forza rispetto al traghettando e conserva fino all’ultimo la lucidità necessaria per tener fermi i propri obiettivi. In assenza di queste condizioni, è meglio salvaguardare le proprie posizioni, i propri valori e la propria identità, mantenere alto il livello del dibattito politico preparandosi, se necessario, a una lunga traversata nel deserto.

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venerdì 7 settembre 2018

Alba 6 settembre 2018: 44 mm di pioggia in un'ora ( tanti o pochi per un nubifragio? Sono tanti)

Il nubifragio di Alba del 6 settembre 2018: 44 mm di acqua in un'ora, 53 mm in 3 ore. Pochi o tanti? Sono tanti. Andando ad osservare le serie storiche troviamo, per Cuneo, il 5 luglio 1906 in un solo evento di poche ore caddero 122 mm d'acqua con gravi danni alla zona. Il 7 giugno 1921, sempre nel capoluogo, in un'ora e tre quarti caddero 68 millimetri...