sabato 26 febbraio 2011
Carnevale, dai richiami alla moderazione ai ricordi rimossi di trasgressioni antiche.
Carnevale, dai richiami alla moderazione ai ricordi rimossi di trasgressioni antiche.
Se la Luna di Pasqua è – come ben sappiamo- quella di marzo, così invece “La i è pa ‘n Carlevé qu’a sie pa ‘nt la luna ‘d fervé (Val Pellice). E la Luna nuova di febbraio è quest’anno il 4 di marzo, appunto in pieno tempo di Carnevale. Incursioni di freddo (a Carnevale fa sempre un freddo gelido), a tratti sentori di primavera. Nell’aria suoni rinnovati della natura (sono tornati i fischi degli strani merli che fanno il nido sul nostro tetto) e nei rumori di orti e giardini che stanno per riprendere vita. Trasgressione: “Carnevale a le vie, fummene e i om i fan empacchie” (Guardia Piemontese: Carnevale per le vie femmine e uomini fanno pazzie). Ripresa degli amori: “Cont Carlevà è de noeu semane, sé màrion tavan e tavane” (Po). La tradizione popolare tuttavia, frenata da esigenze di tranquillità comunitaria e da conformiste influenze religiose, ha cercato - da sempre - di nascondere, di rimuovere gli aspetti più trasgressivi della festa dedicata al “contrario di tutto”. “A vanta fè la vita medesima, tant a Carlevè coma ‘n Quaresima”, recita uno dei più diffusi proverbi piemontesi. Oppure, più minaccioso: “Quand ‘l pare fa Carlevè, ji fieuj a fan Quaresima”: non scialacquare, non esagerare, ne pagherebbero gli altri. Raccomandazione valida sempre, ma applicata non a caso al Carnevale. E ancora: “Chi fa trop grass ‘l Carlevè a farà maira la Quaresima”. Non eccedere, quindi. Basta con le esagerazioni che sovvertono l’ordine quotidiano. Se non fosse bastato questo richiamo alla moderazione, si insisteva su ciò che più direttamente parla alla gente: “L’amor ‘d Carlevè e meuir con la Quaresima”… Certo, c’è un significato più generale, metaforico, in un detto come questo. Ma ne deriva comunque un senso più diretto: la trasgressione corporea dei giorni del ribaltamento dei ruoli può finir male, e fare male. La vera natura del Carnevale taspare però da un’altra serie di detti, meno recitati e ricordati. Dal “A ogni gata a j ven so fervè”, dove febbraio, il mese della festa, è riscoperto nella sua natura di tempo degli innamoramenti fisici, al “Fervè a l’è ‘l meis che le fomne a parlo pì poch”, forse perché tentate dalle gestualità matrimoniali. La tradizione del Carnevale è della stagione degli amori primaverili, ma anche dei matrimoni, tanto che “Se carlevè l’è aot, s’a l’è nen cost a l’è n’aot”: se il Carnevale è lungo e non ci sposiamo in questo, ci sposeremo nel prossimo, dicevano le ragazze da marito. D’altronde “Carlevè ij pajè, Pasqua le salviette”: a febbraio ci si sposa nei pagliai, come faceva la gente di campagna, senza ambage. A Pasqua sono le salviette dei ricchi ad accompagnare i banchetti di nozze. Carnalità della festa, volutamente sguaiata. In Val Gesso una tradizione che credevamo persa: a Valdieri era uso mangiare, nei giorni “del contrario”, nei vasi da notte (nuovi). Bene, non c’entrano i Saraceni, come raccontano i dotti dell’ 800. E’ un’usanza di tutta l’ Occitania, quella di bere vino bianco caldo speziato, zuppa di cipolle o cioccolato (più evocativo…) con banane o crostoni di pane fluttuanti in un… pitale. Lo dovevano fare i novelli sposi. Simbolismo crudo ma arcano di un rapporto rimosso: quello tra escrementi e fecondità della natura.
Fulvio Romano