Cuneo
Il figlio Aldo racconta il dramma della madre, i suoi libri e i silenzi
Il figlio Aldo racconta il dramma della madre, i suoi libri e i silenzi
La Sorbona ricorda la “donna di Ravensbruck”
L’università di Parigi dedica domani una giornata alla monregalese Lidia Rolfi, testimone dei lager
L’università di Parigi dedica domani una giornata alla monregalese Lidia Rolfi, testimone dei lager
Tutto su sua madre, Lidia Rolfi. E tutto sul senso di quell’amicizia «piena di silenzi» che unì per anni lei e Primo Levi. L’università della Sorbona a Parigi terrà domani un seminario sulla figura di Lidia Beccaria Rolfi, una delle grandi voci dell’orrore dei lager, scomparsa a Mondovì nel 1996. La mattinata, che s’inserisce in un ciclo di conferenze sui traumi del Novecento, si concluderà con un convegno internazionale di studi il 15-16 giugno.
Al centro della mattinata accademica lei: Lidia, staffetta partigiana, tradita da una spia fascista in valle Varaita, internata per un anno a Ravensbruck come prigioniera politica. Quell’orrore, anni più tardi, si trasformò in una scrittura senza sconti, nata come un modo per guardare dentro l’inferno e raccontarlo. E, se possibile, sopravvivergli.
Alla giornata di studi domani a Parigi prenderà parte anche il figlio Aldo. Oggi è lui a ricordare, per non dimenticare un passaggio del testimone che lo porta, come sua madre, nelle scuole e tra gli studenti. E al rientro dall’ultimo viaggio-studio al «campo di mamma», come chiama lui Ravensbruck, gli è arrivata la conferma che la Sorbona aveva deciso di dedicare una giornata in ricordo della donna e di quei tormenti - sulla carta e fuori - che non l’hanno mai abbandonata. «A casa nostra si parlava sempre dei campi. Io sono cresciuto a pane e deportazione. Mamma non mi ha mai nascosto nulla», ricorda lui.
Non è sempre stato così. Non nella Mondovì del Dopoguerra e non in una famiglia contadina, dove le persone come Lidia - liberi individui ancora prima che donne - erano nate per incarnare un solo stereotipo. Non il ruolo di una sopravvissuta da un campo di concentramento. Allora meglio nascondere la polvere sotto il tappeto. «Mamma non ha mai parlato con i genitori del vissuto. Quel mondo doveva già fare i conti con la tragedia di Russia. I deportati erano altro: allora non avevano ancora una voce», dice Rolfi.
Testimonianza e scrittura vera sono arrivate dopo. All’inizio solo gesti quotidiani ricordavano che da certe cose non si guarisce mai: «La dispensa piena zeppa. Perché una fame così non te la togli di dosso. Poi altre piccole regole: guai a sprecare, ad esempio. E guai a non mangiare di tutto. Un’economia mentale che mi ha lasciato lei».
La Sorbona tenterà di indagare la figura della Rolfi anche in rapporto a Primo Levi, per aggiungere qualche tassello, se possibile, sulla redazione «dei Sommersi e i salvati». I due scrittori si erano conosciuti a guerra finita: lei sopravvissuta a Ravensbruck, lui ad Auschwitz. A spezzare quel legame, nato sulle ceneri dell’indicibile, fu il suicidio di lui. Aldo: «Lo ricordo mentre arrivava a Mondovì per salutare mamma. Si sedevano e parlavano. Poi calava il silenzio. Ed era un momento loro, che nessuno poteva condividere. In un certo senso sono rimasti là, in un lager, tutti e due. Non ne sono mai più usciti».
chiara viglietti