Torino scese in piazza per il pane e contro la guerra. È passato un secolo da quelle giornate dell’agosto 1917 e della rivolta che per cinque giorni sconvolse la città non è rimasto niente, nemmeno il ricordo. Si era nel pieno della Prima guerra mondiale e la stanchezza dello sforzo bellico si faceva sentire, non solo da noi. C’era stato l’appello di papa Benedetto XV contro «l’inutile strage»; dalla Russia erano rimbalzati gli echi vittoriosi della rivoluzione guidata da Lenin; sui fronti della Somme i soldati si erano ammutinati e avevano disertato in massa; alla fine di ottobre, a Caporetto, ci sarebbe stata la disastrosa sconfitta italiana. In città, il 13 agosto, 40 mila persone si erano radunate davanti alla Casa del Popolo, in corso Siccardi, per ascoltare, entusiasti, i rappresentanti dei soviet russi. Il clima era tale che bastava una piccola scintilla per innescare un grande incendio.
A Torino, a causa dell’esaurimento delle scorte di farina, mancava il pane. E le donne del popolo, per prime, guidarono i saccheggi per prenderselo. Tutto avvenne in modo tumultuoso e, all’inizio, spontaneo.
«Vogliamo la pace!»Alle 9 del mattino di mercoledì, 22 agosto, il prefetto diede l’annuncio che per quel giorno le panetterie non avrebbero aperto; già a mezzogiorno gli operai dell’arsenale di via Caserta uscirono dalla fabbrica per raggiungere le loro donne che protestavano per le strade dei rioni periferici. Davanti alla fabbrica automobilistica Diatto, in Borgo San Paolo. padroni e operai si confrontarono da vicino: «Non abbiamo mangiato, non possiamo lavorare, vogliamo pane…»; «Avete ragione, avete ragione…», rispose Pietro Diatto, «però entrate in fabbrica e non fate sciocchezze. Ve lo dico per il vostro bene e per il bene delle vostre famiglie». Gli operai tacquero un istante. Proprio solo un istante e si guardarono negli occhi, l’uno con l’altro, quasi a consultarsi tacitamente, e poi, tutti insieme, ripresero a gridare: «Ce ne infischiamo del pane. Vogliamo la pace! Abbasso i pescicani, abbasso la guerra!».
Ci furono i primi scontri, i primi morti. Il 23 agosto fu proclamato lo sciopero generale e la situazione precipitò in un conflitto sanguinoso e generalizzato. Mentre squadre di borghesi armati si affiancavano alle forze dell’ordine, gli operai si scatenavano scegliendo gli obiettivi di una rabbia troppo a lungo repressa: fu saccheggiato il caffè Ligure, in piazza Carlo Felice, notissimo ritrovo di aristocratici e interventisti; furono incendiate due chiese, quella di San Bernardino, in Borgo San Paolo e quella della Madonna della Pace, in Barriera di Milano; i quartieri popolari si affollarono di barricate, alcune improvvisate, altre inespugnabili, come quelle di corso Vercelli angolo via Carmagnola, e di corso Principe Oddone angolo corso Regina Margherita.
41 morti, 150 feritiIl 24 agosto i tumulti si accesero anche in Barriera di Nizza; ma il centro cittadino, piazza Castello e via Roma, si rivelò inaccessibile per i dimostranti: il corteo più numeroso e agguerrito, quello che veniva da Barriera di Milano, lungo la direttrice che da corso Vercelli porta in piazza Statuto e via Garibaldi, si infranse tra Porta Palazzo e via Milano contro un insuperabile sbarramento di polizia, esercito e carabinieri. Il 25 agosto il movimento cominciò a rifluire su sé stesso e la fiammata si spense con la stessa improvvisa rapidità con cui si era accesa. Domenica 26 agosto era tutto finito, le barricate distrutte, le forze dell’ordine di nuovo a controllare i rioni periferici. Alle giornate di lotta seguì una lunga scia repressiva, il tribunale emise quasi 900 mandati di arresto e si contarono, secondo le stime più attendibili, 41 morti e 150 feriti.
Gli assalti ai forni, le fabbriche occupate, gli incendi e i saccheggi di alcune chiese avevano proposto forme di lotta insieme arcaiche e moderne, innescando comunque un protagonismo collettivo che attraversò i rioni cittadini come una febbre. Quando ormai la mobilitazione di piazza era un dato di fatto, erano intervenute anche le organizzazioni di quello che allora si chiamava «movimento operaio»: i socialisti nelle loro variegate anime, riformisti e massimalisti, legalitari e rivoluzionari; gli anarchici del Circolo operaio; i sindacalisti della Camera del Lavoro ecc.
Un irriducibile conflittoOggi, un secolo dopo, si può dire che in quei giorni Torino incontrò il suo Novecento, un secolo che, con le ciminiere delle fabbriche, ha segnato le asprezze del paesaggio urbano e la coscienza e l’intelligenza degli uomini: un impasto di razionalismo cartesiano e di austerità calvinista; un insieme di virtù tipiche, la tenacia, la pazienza, la laboriosità; e, infine, protagonisti sociali identificati nelle due figure contrapposte dell’«operaio di mestiere» e dell’«imprenditore capitalistico», collocate in uno scenario di macchine e spolette, caserme e filatoi, automobili e divise militari. Per 80 anni, l’universo politico e economico della città ha ruotato intorno a queste due figure che, separate nel cielo della politica e protagonisti di un irriducibile conflitto economico e sociale, hanno invece contribuito insieme a fissarne i tratti identitari più profondi.
Tra borghesia e proletariato c’è stato, come scriveva Gramsci, un antagonismo puro, liberato da tutte le scorie medievali e precapitalistiche. Per questo Torino era «anormale» rispetto al resto d’Italia. Se Gobetti tentava di cogliere tutte le opportunità conoscitive racchiuse in quello straordinario laboratorio sociale, alimentando la ricerca di un nuovo liberalismo in grado di dialogare in modo ravvicinato con la modernità espressa dalla classe operaia, sul versante opposto Gramsci cercava, nella concretezza dei comportamenti in fabbrica, l’antidoto al dogmatismo esasperato del leninismo. Entrambi apparvero immediatamente minoritari, destinati alla sconfitta: il liberalismo rivoluzionario di Gobetti non ebbe nessun peso nell’area della tradizione liberale; le tesi consiliari di Gramsci furono subito sconfitte all’interno del Pci.
Si può dire che l’operaismo come riferimento esistenziale sia vissuto molto più a lungo delle teorie politiche che aveva ispirato. Oggi, tra le sue macerie, si trova ancora una certa residua insofferenza degli intellettuali italiani verso una tradizione culturale torinese, vista come un ingombrante fardello di cui occorre sbarazzarsi al più presto.