ebook di Fulvio Romano

martedì 27 settembre 2016

"A man who can be provoked by a tweet ..."

"A man who can be provoked by a tweet should not have his fingers anywhere near the nuclear codes"  
( Hilary Clinton nel confronto televisivo con Trump)

domenica 25 settembre 2016

Insegnava a ragazzi e chef l’uso delle erbe in cucina

LA STAMPA

Imperia

La sua gastronomia «naturale»


Per decenni, Libereso Guglielmi è stato un ambasciatore della Riviera di Ponente, attraverso l’educazione all’utilizzo in cucina delle erbe, non solo aromatiche, e dei fiori, dei quali trattava con passione e cognizione profonda, tanto nelle conferenze di Slow Food all’Università di Pollenzo come negli incontri con gli studenti, dove corredava le spiegazioni con disegni ispirati a quelli di Antonio Rubino, il celebre illustratore che aveva frequentato da ragazzo. 

Mancherà, ai suoi interlocutori, affascinati dalla forza evocativa delle sue parole, questo «guru verde», che tuttavia ha lasciato l’eredità di libri come «Oltre il giardino» e «Mangiare il giardino» (Socialmente), «Le ricette di Libereso» e «Ricette per ogni stagione» (Edizioni Zem), in cui ha raccolto le fantasiose ricette sgorgate dalla sua inesauribile vena creativa, pari a quella di un fanciullo, ma imbevuta di conoscenze attinte alla botanica e alle esperienze personali, fatte prima alla Stazione sperimentale di floricoltura di Sanremo e poi in Inghilterra, al giardino botanico di Myddleton House.

Qualche esempio? Zuppa di ortiche, crema di rose, flan di ricotta e viole su vellutata di borragine, fiori di sambuco fritti, omelette di tarassaco, torta di carote e fichi secchi. E, agli chef, a volte un poco stupiti, ai quali teneva corsi di questa speciale gastronomia, spiegava che «il giardino è una mensa, e quella del mangiare fiori è un’usanza perduta, ma ancestrale, perchè viene dall’antico Egitto e risale al 3.000 avanti Cristo». 

Conversatore piacevole, sino a quando la salute lo ha sorretto, Libereso ha partecipato a un centinaio di convegni all’anno, su e giù per l’Italia. «E ancora adesso, che li aveva diradati, gli arrivavano un paio di inviti ogni giorno», racconta Claudio Porchia, che lo accompagnava nei suoi viaggi. E sottolinea: «Ma, al di là dei numerosi premi ricevuti, a dargli le maggiori soddisfazioni era il confronto con i giovani, per insegnare loro ad amare la natura: a Parma ne ha incontrato 800 in tre giorni».

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stefano delfino


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L’amico delle piante generoso con tutti

LA STAMPA

Imperia

Tra bozzetti e nozioni

Le conosceva tutte. Per nome. Sapeva come utilizzarle, quando raccoglierle, come valorizzarle al meglio. Soprattutto nel piatto. Le piante non erano l’oggetto del suo lavoro. Per Libereso le piante erano amiche, compagne di vita, esseri viventi da rispettare, da cui imparare, da ammirare. Ma anche da mangiare, visto che le sue conoscenze infinite su tutto il «mondo verde» lo hanno portato a diventare anche un esperto di fiori e piante commestibili. Una conoscenza che ha saputo non soltanto raccontare in numerosi testi, ma che ha anche dato vita a una serie cospicua di disegni, bozzetti, acquerelli, piccoli dipinti che Libereso disegnava continuamente, portava con sè, utilizzava come segnalibro, regalava a tante persone, con generosità. Mai geloso delle sue creazioni, sempre generoso verso gli altri: il suo sapere, per Libereso, era un patrimonio da condividere, che si portava dietro con semplicità, pur con tutte le collaborazioni importanti, i lavori internazionali, le sue conoscenze ai più alti livelli, il «giardiniere di Calvino» amava raccontare, condividere, spiegare soprattutto ai giovani tutto quello che sapeva. Chi ha avuto, prima che la fatica dei suoi ultimi anni gli acciaccasse le membra, la fortuna di passeggiare con lui lungo un sentiero di campagna, in un bosco, conserva un ricordo magico. In cui tutti i minuti fiori di campo, le erbe meno nobili, perfino le erbacce, diventano protagonisti: ognuna con le sue virtù, caratteristiche, quella si consuma cruda, quell’altra è particolarmente zuccherina, l’altra ancora è ottima per curare qualche disturbo. Una porzione di prato diventa un’insalata, un colorato mazzo di fiori è anche una golosità. Libereso era così. Mai scontato o banale, sempre arguto, originale. A contatto con la terra, con la sua essenza profonda, quando ancora la svolta «green» che tanti oggi professano di certo non era di moda. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

lorenza rapini


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Libereso, il giardiniere “rampante” custode dei segreti della ligusticità

LA STAMPA

Imperia

Un’epopea che sfonda nella poesia

Era unito a Italo Calvino dall’amicizia e da un legame che aveva i colori della Riviera

Coetanei, diversi di carattere e lignaggio eppure più simili di quanto potessero sembrare, uniti da quella ligusticità che li caratterizzerà per tutta la vita. Italo, il liceale compagno di banco di Eugenio Scalfari al Cassini, che diventerà partigiano e sommo scrittore, è a ben vedere la figura allo specchio di Libereso, il giovane contadino che diventerà il saggio custode dei segreti delle piante, della macchia mediterranea. 

Non sappiamo molto dell’incrociarsi dei destini giovanili dei due ragazzi di casa Calvino (ci sarebbe, in effetti, anche il fratello più giovane di Italo) ma conosciamo le parole. Già dai Sentieri dei nidi di ragno, primo romanzo di Italo, la descrizione della collina e della montagna è un trionfo di paesaggio ligure, dove il verde e il brullo si mescolano per fare da quinta ai dialoghi degli incoscienti e tormentati giovani sanremaschi che scelsero da che parte stare dopo l’uccisione di Felice Cascione ad Alto, sulle alture di Albenga. 

La ligusticità, nei Sentieri, diventa quasi epopea ma si trasforma in poesia nel trittico degli antenati, il Barone Rampante soprattutto, dove il nobile che abbandona la terra, intesa come terreno, adatta il mondo arboreo a suo mondo, quasi a sottolineare come la Liguria fosse verde e popolata di alberi più che cemento e uomini. Poi la denuncia, l’invettiva civile, quel racconta sulla Speculazione edilizia che costerà a Calvino l’ostracos perenne della sua ormai martoriata e moralmente irrecuperabile città (lo scrivo con la morte nel cuore, visto che è anche la città di mio padre). Poi, con la maturità, il rimpianto che addolcisce il ricordo e così, ecco il racconto intimo, famigliare, splendido della Strada di San Giovanni dove Italo racconta l’ormai anziano padre che continua a curare l’orto e con i cavagni pieni di verdura attraversa la pigna di Sanremo tra l’orto, tra i muretti e secco, i fiori e gli olivi, e la casa del centro storico. 

È qui, in questo racconto, che ci piace vedere Libereso, barba anarchica e poche parole, capaci di invettive e pronto a salire a San Romolo per fuggire la Speculazione edilizia e ritrovare quella Sanremo fatta di limoni, gamberi e aragoste intrappolate nelle nasse del porto vecchio. 

La storia è finita ieri. E Sanremo, almeno quella parte che non cede, ha il dovere di ricordare quei due giovani vecchi, quello che raccontava la ligusticità in italiano forbito e quello che la raccontava in dialetto. Forse sono la stessa persona.

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STEFANO PEZZINI


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Si è spento Libereso Guglielmi il “giardiniere” che ispirò Calvino

LA STAMPA

Imperia

Botanico, divulgatore, lo scorso anno aveva avuto un riconoscimento dal Comune


Aveva 91 anni. Domani i funerali in forma laica al cimitero di Valle Armea a Sanremo

Si è spento a 91 anni Libereso Guglielmi, il «giardiniere di Calvino». Sanremese, botanico esperto e noto in tutto il mondo, aveva salde le sue radici a Sanremo. Conoscitore dei segreti di tutte le piante, cultore della cucina con i fiori, autore di libri di botanica, ma anche di ricette. I funerali in forma laica e privata si terranno domani alle 10,30 al cimitero di Valle Armea a Sanremo. Al cordoglio di amici e familiari si unisce anche il sindaco di Sanremo Alberto Biancheri con tutta l’Amminsitrazione. E ricorda la cerimonia dello scorso anno, per i 90 anni di Libereso, con cui il Comune ha voluto premiare il botanico. 

Appassionato divulgatore, Guglielmi per tutta la vita ha portato il suo messaggio agli altri. Sempre con generosità e disponibilità. Ambientalista convinto, ha cominciato a lavorare a 15 anni grazie a una borsa di studio accanto a Mario Calvino, padre dello scrittore Italo, con cui poi ha intessuto una lunga amicizia. 

Per questo è anche uno degli ultimi testimoni diretti, poteva raccontare aneddoti, portava con sè una miriade di episodi, sempre raccontati con il sorriso, con quella semplicità disarmante che metteva tutti a proprio agio, ma che sapeva anche zittire con la forza della verità. 

È stato definito lo scorso anno, in occasione del riconoscimento ottenuto in Comune a Sanremo, «non solo uno dei più grandi esperti di botanica e floricoltura, ma anche un piacevolissimo maestro che, con la curiosità e la semplicità che lo hanno sempre contraddistinto, riesce a insegnare a noi tutti l’importanza e il valore delle erbe e dei fiori».

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Damele, Delfino, Pezzini e Rapini


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venerdì 23 settembre 2016

Il baciamano

LA STAMPA

Prima Pagina


Quesito per maschi in ascolto: riuscireste a essere galanti con una donna che il giorno prima vi ha volutamente umiliato, lasciandovi marcire in anticamera per andarsene in trattoria con gli amici, nonostante avesse un appuntamento con voi? Una donna, oltretutto, da cui non sperate di ricevere più niente, perché ciò che desideravate da lei ve lo ha già pubblicamente e definitivamente negato con toni stizziti e strafottenti? Io no. E infatti non sono Giovanni Malagò, non ho il suo sguardo sterminatore né la sua gestualità professionale, senza contare che l’unica volta in cui ho tentato il baciamano sono andato a sbattere contro un anello particolarmente acuminato. 

Questa immagine fotografa il contatto tra la Prima Repubblica democristiana e la Terza grillina. Il baciamano del presidente del Coni sa di inclusione, buone maniere e inevitabile ipocrisia, perché lui quella mano gliela mozzerebbe volentieri con un morso. Mentre negli atteggiamenti stucchevoli della sindaca di Roma - al cui confronto Hillary Clinton appare una ragazzona simpatica e spontanea - traspare il tratto fondante della setta grillina: il disprezzo per chiunque c’era prima, e che già solo per questo è una persona di cui diffidare, meglio ancora da umiliare. Per le seguaci del Dibba la galanteria è un’aggravante.

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Massimo Gramellini


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mercoledì 7 settembre 2016

Addio al totem della sincerità con gli elettori

LA STAMPA

Italia

Tutti sapevano 


Volute o no da Beppe Grillo in persona (che meno di un mese fa, non va dimenticato, aveva invano chiesto a Raggi l’uscita di scena dei suoi più stretti collaboratori Frongia e Marra, in odore di ex alemannismo), le dimissioni dell’assessora all’ambiente Muraro, indagata, come s’è appreso lunedì, per la sua precedente attività all’Ama (la municipalizzata romana dei rifiuti) e del neo-assessore al bilancio De Dominicis, che ha confessato in un’intervista che il suo nome era stato suggerito dall’avvocato Sammarco, fratello di un difensore dell’ex ministro berlusconiano Previti, non risolvono, e forse neppure mettono una pezza alla crisi dell’amministrazione stellata. Danno solo la misura della crisi di nervi in cui versa il vertice del Movimento, contestato dalla base sulla rete e accusato, a ragion veduta, di aver violato la regola numero uno dei 5 stelle: la trasparenza nei rapporti con gli iscritti e gli elettori.

Anche perché lo sapevano tutti, non solo la Raggi e il direttorio romano che l’assessora sotto indagine della procura aveva accettato egualmente di entrare in giunta, pensando che magari tutto si sarebbe risolto. Ne aveva parlato, non solo con la sindaca e i suoi collaboratori, che avevano informato il Direttorio, ma anche con la magistrata capo di gabinetto Raineri, dimissionaria, che le aveva sconsigliato di far pressioni sulla magistratura. Soprattutto, è questo l’aspetto più grave, lo sapevano Di Maio e Di Battista. E a questo punto è difficile credere che non fossero stati messi al corrente anche Grillo e Casaleggio junior. Insomma un segreto di Pulcinella.

Ma la crisi dell’amministrazione alla fine non ci sarà. Anche se una metà abbondante del Movimento 5 stelle non si fida più della Raggi perché teme che il patto leonino stretto da lei con una parte della destra romana, uscita dalla diaspora del dopo giunta Alemanno, la porterà a continuare a governare riciclando personaggi del passato e vecchi gruppi di interesse, o inserendo tecnici troppo autonomi dalla linea «rivoluzionaria» dei 5 stelle.

A dirlo così, sembra un gioco da ragazzi. Purtroppo è la realtà di quel che sta accadendo in Campidoglio. Tra l’altro, non è detto che l’uscita di scena della discussa e indagata Muraro basti a chiudere il caso. L’assessora, che conta molto sul corpaccione dell’Ama, non ha alcuna voglia di far da capro espiatorio. La Raggi potrebbe così trovarsi a fronteggiare anche il ritorno dei cumuli di rifiuti per le strade della Capitale, con cui l’amministrazione aveva dovuto fare i conti al suo esordio.

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Marcello

Sorgi


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Nella cupola ellittica ti passa anche lo stress

LA STAMPA

Italia


Test a Vicoforte, mentre apre la fiera commerciale

Quando si dice: «Toccare il cielo con un dito». Sulla maxi cupola della basilica di Vicoforte, nel Monregalese, la sensazione di benessere è doppia. Perché si possono sfiorare le nuvole (l’altezza massima è di 60 metri) e perché, ora lo dimostra anche un esperimento scientifico, salire in alto e godere di bellezza straordinaria e cultura «fa star bene».

In un anno e mezzo hanno provato l’esperienza di «conquistare» la sommità della cupola ellittica affrescata più grande del mondo 42 mila visitatori (c’è tempo fino a fine ottobre). In più, un centinaio di volontari si è prestato alla ricerca medico-scientifica che la cooperativa «Kalatà» (ideatrice del «Magnificat», cioè la scoperta di luoghi mai visitati) ha varato con l’Università Alma Mater di Bologna. Con una domanda: «Vivere un’esperienza culturale e artistica incide fisicamente sul benessere della persona?». Al primo studio di questo tipo in Italia hanno preso parte 100 «pionieri», fra i 18 e i 75 anni. Gente comune, alla quale è stata offerta la visita in cambio dell’esame fisico delle reazioni: concentrazione di cortisolo, registrazione del battito cardiaco e campioni di saliva prelevati in partenza e arrivo, dopo aver superato 260 scalini.

L’idea di portare i visitatori là dove non era mai stato nessuno - sulla vetta del «cupolone» - ha la firma di Nicola Facciotto, 40 anni, musicologo per formazione e appassionato di montagna. Guida «Kalatà», cooperativa di «amici-dipendenti-soci». Obiettivo: «Creare progetti per far cultura». «L’exploit - racconta - è nato quando, con Alessandro Beltrame, che filma meraviglie del mondo, dovevamo far riprese dall’alto. Salendo in assetto alpinistico, mentre gli raccontavo la storia, ci siamo detti: “Perché non condividerlo con la gente?”».

L’Amministrazione del Regina Montis Regalis ne ha concesso l’uso esclusivo per 5 anni; gli ingegneri hanno messo in sicurezza il percorso, su cui Kalatà ha investito un mutuo da 280 mila euro. Come per un’officina. «Abbiamo dato lavoro a 13 persone e visibilità nazionale a un’opera d’arte - dice Facciotto -. Il nostro target è “tutti”». E il Santuario risulta l’edificio italiano più alto, senza ascensore, visitato da disabili: «Abbiamo varato un sistema di sicurezza, grazie al Soccorso alpino, e ci sono già stati ospiti». Visite tutti i giorni, escluso lunedì. 

La Basilica, accanto alla quale fino a domenica c’è la fiera commerciale all’aperto più grande del Nord Ovest, sorse intorno a un pilone. Nel 1592, un cacciatore colpì per sbaglio l’immagine della Madonna col Bambino che, per tradizione, sanguinò. Per riparare, l’uomo appese l’archibugio al pilone (oggi conservato in una cappella) e iniziò una raccolta di fondi. Carlo Emanuele I di Savoia, nel 1596, commissionò il tempio all’architetto di corte Ascanio Vitozzi, per renderlo mausoleo sabaudo. 

Ma la morte di Vitozzi creò vicissitudini al cantiere, compresa un’instabilità rimasta a tutt’oggi (monitorata dal Politecnico di Torino in modo sofisticato). Gallo e Juvarra finirono la cupola, nel 1732. All’interno, oltre 6000 metri quadrati affrescati. I visitatori (con elmetti, imbragature e guide), superati scale a chiocciola, cunicoli e balconate, li sfiorano. E si sentono «bene».

«Il 90% degli esaminati era più felice - dice Enzo Grossi, dell’ateneo di Bologna, coordinatore dell’esperimento -, in gran parte le donne. Il 60% aveva meno cortisolo, cioè l’ormone dello stress, il 40% un maggior livello di benessere percepito. Un progetto mai eseguito. A breve i risultati completi saranno pubblicati in una rivista scientifica internazionale».

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Paola Scola

Zaira Mureddu


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Mal di test

LA STAMPA

Prima Pagina


Se Zap significa cifra singola divisibile per 7, Zup significa cifra singola divisibile per 5 e Zep significa cifra singola divisibile per 4, con quale scrittura può essere espresso il numero 48? a) zep zep, b) zap zap, c) zup zep, d) zep zap, e) zep zup - «Se il mandorlo è in fiore la rosa marcisce. Se la begonia marcisce il papavero sboccia. Inoltre o il mandorlo è in fiore o la begonia marcisce». In base alle precedenti affermazioni è sicuramente vero che: a) la rosa marcisce o il papavero sboccia, b) il papavero sboccia, c) il mandorlo è in fiore e il papavero sboccia, d) la rosa marcisce e il papavero sboccia, e) la rosa e la begonia marciscono - In un ipotetico linguaggio in codice, alla parola Specifica corrisponde il codice Spefecififificafa e alla parola Ignorato corrisponde il codice Ifignoforafatofo. Come si scriverà, nel medesimo codice, la parola Mail? a) mafaifil, b) mafifil, c) mafafiil, d) mfaaifil, e) mail.

Premesso che solo uno sciocco capace di sbagliare tutte le risposte come il sottoscritto oserebbe scherzarci su, dopo un’attenta analisi dei test per l’ammissione alla facoltà di Medicina affrontati ieri da migliaia di studenti si possono azzardare alcune deduzioni: a) se non hai letto i libri di Dan Brown o almeno i «Quesiti con la Susi» sulla Settimana Enigmistica, non hai alcuna probabilità di diventare medico in Italia; b) se azzecchi lo Zep ma inciampi sul papavero e, Dio non voglia, sulla Spefecififificafa, puoi al massimo riciclarti come assessore della giunta Raggi; c) se sbagli pure il Mafifil, l’unico posto a cui puoi realisticamente ambire è autore di test per l’ammissione a Medicina.

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Massimo Gramellini


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martedì 6 settembre 2016

Dio e marketing Francesco prima di Jobs

LA STAMPA

Cultura

Furono i francescani del Medioevo a inventare 

la politica aziendale adottata oggi dai giganti globali 

Immaginiamo una grande organizzazione multinazionale, conosciuta in tutto il mondo, fondata grazie allo slancio visionario di un giovane fondatore carismatico, che è diventato un mito già da vivo e ancor più dopo la morte; un’organizzazione riconoscibile anche visivamente per le sue scelte di comunicazione e per il look inconfondibile che la caratterizza. Sto parlando della Apple e di Steve Jobs? No, sto parlando di san Francesco e dell’ordine francescano.

Le analogie tra gli ordini religiosi del Medioevo e le grandi aziende odierne sono così vistose che viene da chiedersi se le strategie e il linguaggio delle multinazionali non si siano ispirati consapevolmente a quell’esperienza. Oggi non c’è documento di marketing o manuale di comunicazione aziendale che non impieghi a ogni riga le parole vision e mission, che rivelano immediatamente la loro appartenenza al linguaggio dei frati e dei monaci. E d’altra parte, perché le aziende non dovrebbero ispirarsi a un modello di tale successo? Dieci anni dopo che Francesco ebbe l’intuizione di fondare il suo ordine, i francescani erano già alcune migliaia, il che vuol dire che erano quasi raddoppiati ogni anno; per l’esattezza, si è calcolato un tasso di crescita dell’80% annuo. La conquista di nuovi mercati era gestita con campagne mirate: nati in Italia Centrale, dopo un po’ i francescani decidono di espandersi a Nord, e mandano apposite task force in Lombardia e in Germania, affidate a frati che sanno predicare nelle lingue straniere, «in lombardico et in theutonico». Nel 1219 Francesco decide di mandare un gruppo di frati in Francia, per diffondere l’Ordine anche in quel regno; vent’anni dopo sono già fondati qualcosa come 72 conventi.

Non stupisce che Francesco, a un certo punto, abbia aperto gli occhi e si sia accorto di aver creato un mostro: era a capo di una multinazionale, lui che voleva andare in giro scalzo con un gruppetto di amici, parlando di Gesù alla gente e scaricando casse al mercato per mantenersi. Negli ultimi anni di vita Francesco si dimise dalla guida dell’ordine, creando grossissimi problemi ai suoi successori, perché per l’immagine dell’organizzazione e la motivazione dei membri il mito del fondatore è essenziale. Fra il Novecento e il Duemila i grandi fondatori di aziende, gli Henry Ford, i Bill Gates, gli Steve Jobs sono stati mitizzati in vita, e sono diventati delle leggende dopo la morte, grazie anche all’invenzione di quel peculiare genere letterario, la biografia autorizzata, erede diretto dell’agiografia medievale. 

Il caso di Steve Jobs conferma che i visionari del Medioevo avevano ragione quando insistevano sull’importanza del look. La biografia autorizzata di Walter Isaacson ci svela che non era certo un caso se Jobs vestiva sempre uguale, jeans blu senza cintura e maglioncino nero a collo alto. Più volte il fondatore di Apple propose che tutti i dipendenti dell’azienda si vestissero allo stesso modo, ma i lavoratori non apprezzavano l’idea, e Jobs dovette accontentarsi di vestirsi lui così: nell’armadio aveva un centinaio di dolcevita neri, tutti uguali, e previde correttamente che gli sarebbero bastati per tutta la vita. Francesco, invece, riuscì a imporre ai frati di vestirsi tutti allo stesso modo, con un saio bigio e un cappuccio a punta, da contadino; ma dopo la sua morte i francescani ebbero dei sai larghi e comodi, di ottima stoffa, e il cappuccio diventò ampio e arrotondato, come voleva la moda. Grazie alle tecnologie moderne gli storici dell’arte hanno scoperto che diverse tavole col ritratto di San Francesco sono state modificate dopo la sua morte, cancellando l’odiato cappuccio a punta e sostituendolo con un cappuccio da giovanotto elegante.

Tutti sapevano che l’immediata riconoscibilità era un ingrediente del successo. Quando il monastero di Cîteaux cominciò a fare concorrenza a quello di Cluny, i cistercensi scoprirono che nella regola benedettina non stava scritto da nessuna parte di che colore doveva essere l’abito; per tradizione era nero, ma loro si vestirono di bianco, perché la gente doveva vedere la differenza. Il mantello bianco era anche la prerogativa dei Templari, e quando un ordine concorrente, i Teutonici, volle adottarlo, i templari protestarono col papa, perché impedisse quella concorrenza sleale: il copyright era loro!

Poi gli ordini militari ebbero il problema, comune a tante aziende, di una crisi di mercato che ridusse la domanda. Dopo la perdita della Terrasanta e la fine delle crociate non c’era più un gran bisogno di monaci guerrieri. C’erano ben tre ordini militari, i Templari, gli Ospedalieri e i Teutonici, e sempre più voci si levavano contro questi enti inutili, che per la cristianità rappresentavano un passivo netto. Gli ordini reagirono presentando un progetto di fusione: così, argomentò il Gran Maestro del Tempio, si realizzeranno dei grossi risparmi, dove prima c’erano tre poltrone ne rimarrà una sola. Ma l’antitrust intervenne: i sovrani europei fecero sapere al papa che non avevano nessuna voglia di trovarsi fra i piedi una multinazionale monopolistica e strapotente. Alla fine, com’è noto, Filippo il Bello risolse a modo suo il problema della ridondanza dei templari; ma i loro rivali, gli Ospedalieri, esistono ancora, col nome di Ordine di Malta.

E a questo proposito, ci sono due organizzazioni che recentemente hanno lanciato un progetto chiamato Vision 2050. Sono progetti che non hanno niente in comune, ma sono stati chiamati nello stesso modo per caso da manager che condividono lo stesso tipo di linguaggio. Una è il Wbcsd, organizzazione che riunisce circa 200 multinazionali, e che col progetto Vision 2000 si propone di guidare la «global business community» verso un futuro sostenibile. L’altra è appunto l’Ordine di Malta, che col progetto Vision 2000 si propone di reclutare giovani e finanziare iniziative fino alla metà del secolo. Così una potentissima associazione di multinazionali, fondata nel 1992, con sede a Ginevra, e l’Ordine di Malta, il vecchio concorrente dei Templari, che nel suo sito ufficiale dichiara di essere in attività dal 1048, usano lo stesso linguaggio; ed è molto difficile decidere chi è che sta imitando l’altro.

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Alessandro Barbero


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Il battaglione Sammarco

LA STAMPA

Prima Pagina


La cosa grave non è tanto che la sindaca Raggi abbia nominato assessore al Bilancio un ex magistrato economico che dice «sprid» invece di spread e «down ground» invece di downgrade. E non è neanche che i conti depressi della Capitale siano finiti nelle mani di un signore che chiese, inascoltato, 351 miliardi di euro alle agenzie di rating per avere complottato contro Berlusconi e che ha dato alle stampe un saggio, ingiustamente passato sotto silenzio, dal titolo «Giulio Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass». Non è neppure che questo portento, il dottor De Dominicis, le sia stato segnalato dall’avvocato Sammarco, socio del berlusconiano di estrema destra Cesare Previti. Né che la Raggi, in campagna elettorale, si sia dimenticata di avere fatto pratica nel loro studio per poi minimizzare quella frequentazione imbarazzante riducendola a fugace struscio (a giudicare dalle ultime mosse, non così fugace). 

La cosa grave è che la sindaca dei Cinquestelle sia salita al Campidoglio senza uno straccio di classe dirigente, mentre il principale scopo di un movimento politico dovrebbe essere quello di selezionare le personalità da inserire nelle istituzioni. Così la Raggi ha dovuto affidarsi al bricolage, mettendo insieme pezzi della destra romana e figure discusse come quell’assessora all’Ambiente che ha tenuto nascosto per mesi un avviso di garanzia. Ricordate quando Grillo arringava i grulli profetando che in una politica liberata dall’infame presenza dei partiti avrebbe fatto gestire i bilanci dalle casalinghe di Voghera? Evidentemente le casalinghe sono finite. O non sono mai cominciate.

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Massimo Gramellini

“Avevamo paura dei profughi dopo un anno sono parte di noi”

LA STAMPA

Italia


Un paese del Cuneese aveva minacciato di cacciarli

Inizio settembre 2015. A Ormea, val Tanaro, 1600 abitanti, il prefetto di Cuneo annuncia l’arrivo di una trentina di richiedenti asilo: un albergatore li vuole ospitare. Gli ormeesi si dividono: hanno paura che sia la fine della loro vitalità turistica. E c’è chi propone una cordata per rilevare l’hotel e «salvarlo» dall’occupazione.

Poi il gesto che non ti aspetti: il Comune chiede alla Prefettura di ricevere gli stranieri nell’ex casa di riposo pubblica. Oggi, un anno dopo, Ormea è modello di accoglienza, che ha portato lavoro e integrazione. Senza disordini.

«Il 3 settembre Massimo Gramellini ci dedicò il suo arguto “Buongiorno” dal titolo “Ormea Culpa” - dice il sindaco, Giorgio Ferraris, condottiero di tante battaglie in valle -. A distanza di un anno, nessun commerciante ha messo mano al portafogli per sostenere l’albergo che voleva accogliere i migranti e il turismo, principale fonte di sostentamento, non ha avuto danni dalla presenza dei ragazzi dal colore della pelle diverso da quello a cui eravamo tradizionalmente abituati».

Prosegue: «Abbiamo scelto una gestione pubblica diretta dell’accoglienza, unico caso a mia conoscenza, senza intermediazione di privati o coop, perché abbiamo ritenuto garantisse condizioni migliori a ospitati e comunità. Con quanto erogato dalle Prefetture, saremmo riusciti a sistemare la struttura e, soprattutto, ad assumere persone, oltre alle addette ai servizi, con il compito esclusivo di stare con i ragazzi, parlare in italiano e accompagnarli nelle varie attività». Convenzione con la Prefettura: ora in 10 lavorano per garantire l’ospitalità a 35 giovani dall’Africa subsahariana.

Con i fondi l’ex ricovero è stato ristrutturato. «Quasi tutti i ragazzi sono stati impegnati in manutenzione del patrimonio pubblico - dice Luciano Obbia, presidente dell’Ipab -, che senza di loro non si sarebbe potuta fare. Ora è partito, con la Regione, un progetto di pulizia di castagneti abbandonati, che privati hanno messo a disposizione: si concluderà con raccolta e vendita delle castagne. Venti ragazzi frequentano corsi sulla sicurezza sul lavoro, nella locale Scuola Forestale: impareranno a fare i muri a secco, tradizionali del paesaggio agricolo». E c’è Alieu, 18 anni, dal Gambia: il suo sogno era fare il sarto. Gli hanno dato una macchina per cucire e ha già avuto successo. 

«Non so se siamo riusciti a meritare l’assoluzione dalla “culpa” -ironizza il sindaco -, ma abbiamo cercato di fare il possibile per tutelare la sicurezza e la tranquillità della comunità e dare un’accoglienza dignitosa e utile ai ragazzi che ospitiamo».

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paola scola