ebook di Fulvio Romano

sabato 25 giugno 2016

Cosa rischia Matteo a ottobre

LA STAMPA

Cultura

Cosa rischia

MATTEO

a ottobre

Il primo ministro di una grande nazione capitalista, democratica, europea, indice un referendum sulla permanenza del suo Paese nell’Unione europea. Lo fa insidiato da un partito di opposizione antieuropeo, che lo tormenta quotidianamente e cresce nei consensi, anche se non è riuscito a batterlo alle elezioni. A sorpresa, una parte del partito del primo ministro, guidata da un suo avversario interno, si schiera con gli antieuropei. 

Si vota, e l’alleanza tra nemici interni e esterni del primo ministro vince, costringendolo alle dimissioni. È accaduto in Gran Bretagna nella notte tra giovedì 23 e ieri. Potrebbe accadere anche in Italia, al referendum costituzionale dei primi di ottobre?

Escluderlo è difficile, anche se Matteo Renzi sostiene che la consultazione sulla Grande Riforma sarà l’occasione della rivincita, dopo il deludente risultato del 19 giugno. In Italia come in Inghilterra, a soli quattro giorni di distanza, l’alleanza di tutti contro l’uomo da battere si è riformata con un’inquietante sequenza di dettagli che potrebbero ripetersi ancora. Come Renzi, anche Cameron aveva messo sul piatto della scommessa l’intera posta della sua vita politica, annunciando che avrebbe lasciato, come ha fatto, un minuto dopo l’eventuale sconfitta. Renzi, già ad aprile, nel referendum sulle trivelle, si era trovato a fronteggiare l’alleanza dei governatori regionali, quasi tutti del suo partito, che in barba al suo invito a disertare le urne, avevano portato a votare quindici milioni e mezzo di cittadini. E anche Cameron ha dovuto difendersi dall’inedita alleanza di Nigel Farage, il leader del «Leave», cioè dell’uscita dall’Europa, con Boris Johnson, l’ex-sindaco conservatore di Londra, entrato nella partita con il chiaro obiettivo di prendere il posto del primo ministro sconfitto, e adesso, dopo le dimissioni di Cameron, a un passo dal realizzare il suo obiettivo. Inoltre, come Renzi, Cameron ha scelto la strada della personalizzazione del voto, non calcolando che così avrebbe spostato l’oggetto della consultazione, da quello formalmente indicato sulle schede - restare nell’Unione Europea o uscirne -, al presente e al futuro suo e del governo. In altre parole, Cameron s’è impiccato da solo a una sfida che nessuno gli aveva suggerito, e in tanti al contrario gli avevano sconsigliato.

Qui finiscono le analogie tra Londra e Roma, e comincia la specificità del caso italiano. Renzi, si sa, è convinto che ci sia differenza tra le elezioni amministrative che hanno segnato la sua prima, cocente delusione elettorale, la vittoria del Movimento 5 stelle grazie anche all’appoggio della destra, e il «suo» referendum costituzionale. Un conto era il voto nelle città, a cui il Pd arrivava logorato da un’ondata di corruzione, e a parte Milano, con candidature non proprio competitive. E un altro conto sarà quando gli elettori dovranno decidere se cambiare, o lasciare intatto, un sistema politico che non funziona, tagliando i membri della casta, imponendo il doppio lavoro ai sopravvissuti e mettendo il governo, finalmente scelto per davvero dagli elettori, in condizioni di realizzare il proprio programma senza lungaggini e compromessi umilianti. Diventare l’uomo-simbolo di questa battaglia, ritiene Renzi, gli consentirebbe di rivestire i panni del rottamatore che così popolare lo avevano reso agli occhi dell’elettorato che due anni fa lo votò al 40,8 per cento, e domenica lo ha in parte tradito preferendogli i 5 stelle.

Il ragionamento sarebbe ineccepibile se a ottobre si votasse solo e soltanto sulla Grande Riforma e non sul complesso quadro politico italiano, in rapida evoluzione. Con le sue doti di comunicatore, non c’è dubbio che Renzi sarebbe capace di presentare la scelta agli elettori in termini assai convincenti. Ma cosa succederebbe se invece, contro di lui, scendesse in campo uno schieramento largo e variato, dai professori del No capaci di fare a pezzi scientificamente la riforma, alla minoranza del Pd che con D’Alema è schierata con il No, ai 5 stelle, al centrodestra in tutte le sue articolazioni, comprese, sebbene non del tutto, quelle che sostengono la sua maggioranza? È esattamente questo, infatti, che si prepara, e Renzi non può fingere di non capirlo. Né può ignorare che le contropartite che gli vengono chieste - la modifica della legge elettorale spostando il premio dalla lista alla coalizione vincente, la rinuncia al doppio incarico di segretario del Pd e presidente del Consiglio - seppure accettate (ma al momento sembra di no), non gli garantirebbero certo il risultato di urne in cui gli elettori, come a Torino, si divertono a sparare sul conducente.

I sistemi presidenziali, i governi scelti dagli elettori trasformando con meccanismi maggioritari o premi elettorali le minoranze in maggioranze, i Parlamenti riservati a due, tre, massimo quattro partiti, e insomma quel che la riforma di Renzi vorrebbe introdurre in Italia, per tanto tempo, va riconosciuto, hanno consentito di governare il disordine delle società mutanti, il tramonto del capitalismo industriale, gli esiti, assai diversi dalle previsioni, di trent’anni circa di globalizzazione. Ma adesso, tutt’insieme, stanno mostrando debolezze, dopo un decennio di crisi economica, deflazione, stagnazione, rallentamento dei consumi, e impoverimento delle classi medie. Si vede in Francia, dove due presidenze opposte, Sarkozy e Hollande, finiscono consumandosi allo stesso modo. S’è visto in Austria, per citare il precedente più recente. È successo, incredibilmente, pure nella vecchia e tradizionale Inghilterra. E a novembre, Dio non voglia, potrebbe accadere nell’America di Trump.

Quanto a noi, appena usciti da un passaggio elettorale carico di presagi e malgrado ciò interpretato come l’inizio di una rivoluzione, siamo a un bivio complicato. Per Renzi, sulla strada del cambiamento, c’è il rischio di finire battuto dalla grande alleanza antirenzi. Cementata, ironia della sorte, dal referendum che dovrebbe introdurre il nuovo ordinamento previsto dalla riforma. D’altra parte, al punto in cui è arrivato, gli è difficile far marcia indietro. E verso dove, poi?

In Italia esisteva un partito governativo per vocazione, né di destra né di sinistra, interclassista, che cercava le sue alleanze in Parlamento e gestiva i governi possibili, in nome di una stabilità spesso degenerata in immobilismo: era la Dc. Rimpiangerla è difficile, riproporla, e perfino somigliarle, impossibile. Ma la prudenza delle sindache stellate e la distanza di Grillo da Farage, in questi giorni, fanno riflettere. Tra queste, e l’impazienza di Renzi per il referendum, non c’è dubbio su chi ricordi di più l’intuito, la saggezza e la furbizia dei vecchi democristiani.

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Marcello Sorgi


sabato 11 giugno 2016

Caporetto demografica, l’Italia si svuota

LA STAMPA

Italia


Poche nascite e picco di decessi, un calo così della popolazione non accadeva dal 1917 

Gli stranieri sono l’8,3%, ma per la prima volta i migranti non hanno arginato il crollo

Un’Italia sempre meno italiana e sempre meno popolata emerge dagli ultimi dati pubblicati dall’Istat nel «Bilancio demografico nazionale». Durante il 2015 i residenti sono diminuiti come non capitava dal 1917, l’anno della disfatta di Caporetto, simbolo eterno di un’Italia in profonda crisi. In totale al 31 dicembre 2015 risiedono in Italia 60 milioni 665.551 persone. Fra di loro più di 5 milioni sono stranieri, cioè l’8,3%dei residenti in Italia e il 10,6% vivono al Centro-nord. 

Ma tra questi 60 milioni e oltre di italiani ci sono 130.061 persone in meno rispetto al 2014. Il calo riguarda esclusivamente i cittadini italiani - 141.777 residenti in meno - mentre ci sono 11.716 stranieri residenti in più che, però, per la prima volta non riescono a compensare il calo costante degli italiani. La diminuzione è più rilevante per le donne (-84.792) rispetto agli uomini (-45.269).

L’Istituto nazionale di statistica pone in particolare l’accento sulla continua riduzione della popolazione con meno di 15 anni: al 31 dicembre 2015 era pari al 13,7%, un punto decimale in meno rispetto all’anno precedente. Vuol dire che quelli che dovrebbero essere i futuri italiani sono sempre meno numerosi, segno inequivocabile di una crisi che sembra senza futuro.

Il saldo naturale, determinato dalla differenza tra le nascite e i decessi, nel 2015 ha fatto registrare valori fortemente negativi, anche più negativi dell’anno precedente. Al costante calo delle nascite, nel 2015 si è affiancato un notevole aumento dei decessi. 

Calano anche gli italiani attivi, quelli che hanno dai 15 ai 64 anni che nel 2015 rappresentavano il 64,3% della popolazione. Aumentano soltanto gli italiani che hanno 65 anni e oltre, vale a dire il 22% degli italiani. 

Nel 2015 i nati sono stati meno di mezzo milione (-17 mila sul 2014) di cui circa 72 mila stranieri (14,8% del totale). I decessi invece oltre 647 mila, quasi 50 mila in più rispetto al 2014. Si tratta di un incremento sostenuto che - secondo l’Istituto di statistica - è da attribuire a fattori sia strutturali sia congiunturali. L’eccesso di mortalità ha riguardato i primi mesi dell’anno e soprattutto il mese di luglio, quando si sono registrate temperature particolarmente elevate.

Ci sono circa 133mila persone che hanno scelto di andare a vivere all’estero. Il movimento migratorio, un dato in flessione rispetto agli anni precedenti e che ha il suo peso nel saldo negativo finale. 

Prosegue la crescita delle acquisizioni di cittadinanza come unico, profondo segnale positivo nella crisi demografica italiana: ammontano a 178 mila i nuovi cittadini italiani nel 2015. Sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese: per oltre il 50% (vale a dire oltre 2,6 milioni di persone) si tratta di cittadini che arrivano da un Paese europeo. La cittadinanza maggiormente rappresentata è quella romena (22,9%) seguita da quella albanese (9,3%).

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FLAVIA AMABILE


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mercoledì 1 giugno 2016

Il paese fantasma dell’Astigiano dove i macedoni salvano le vigne

LA STAMPA

Italia


A Maranzana 242 abitanti: 50 anni fa erano il triplo

A Maranzana (dove il Monferrato astigiano scavalla sull’Acquese) la strada finisce e non ci si può arrivare per caso. Alla sommità dell’abitato, coricato sul fianco della collina, il castello e tutt’intorno un paese che anno dopo anno si sta spopolando. I residenti sono 277, ma 35 vivono all’estero. I numeri di oggi sono impietosi se si pensa che nel 1911 i maranzanesi erano 1240. Cinquant’anni dopo, nel 1961 la metà: 634. Oggi tra questi 242 abitanti ci sono anche 35 macedoni. 

«Solo il 50% delle case ha accesso alla connessione adsl, i cellulari prendono poco e abbiamo zone a zero segnale. Non ci sono bus per Acqui o Nizza, non arrivano più i giornali, il postino passa a giorni alterni e la scuola elementare è chiusa». Sembra un bollettino di guerra l’elenco dei disservizi con cui lotta Maranzana. A snocciolare i problemi la sindaca Marilena Ciravegna, 77 anni appena compiuti e l’amore per un paese in cui vive dal 2008. «Sono torinese – racconta con l’accento sabaudo -, ma qui ho trovato il mio angolo di paradiso». La storia, quella dell’ultimo secolo, se l’è fatta raccontare «da questa gente che ha gli occhi che guardano lontano». «Qui c’erano macellaio, ciabattino, ombrellaio, tabaccaio, alimentari, posta e osterie – racconta –. Ora c’è un coppia di coraggiosi che mantiene aperto il bar. Fa da tabaccheria ed alimentari. Senza di loro ci sarebbe poco altro». Una sala da ballo, il circolo e un po’ di vita in estate quando arrivano i villeggianti. 

Sino alla metà del Novecento l’ostetrica faceva nascere i bambini, 120 quelli iscritti alle elementari nel 1940. Poi, sul finire dei Sessanta si nasceva ad Acqui o Nizza ed ora i punti nascita più vicini sono ad Asti e Alessandria: 50 chilometri d’auto. Il medico condotto apre lo studio 3 volte a settimana e da qualche anno un farmacista, negli stessi orari di visita, consegna le medicine. 

Se la guerra si è portata via una generazione, le fabbriche di città hanno attirato i figli come suadenti sirene. «Si lasciava la vita da contadino per lo stipendio da operaio – annota Marilena Ciravegna -. Se non fossero arrivati i macedoni a lavorare i nostri vigneti vivremmo in un grande gerbido». Qui la terra, la vigna, è economia. Alla Cantina Sociale i vignaioli portano le uve che altri maranzanesi trasformano in vino che va in tutto il mondo. Ma passeggiando per il paese d’inverno, si fatica a trovare luci accese dietro gli scuri. Eppure per le stesse vie si sarebbe potuto incontrare un giovanissimo ministro Pier Carlo Padoan in visita ai parenti; oppure Luigi Tenco con la mamma, originaria del borgo. A metà Ottocento da qui partì per Genova un ragazzotto: Giacomo. Il suo sogno fare il marinaio, e per entrare in accademia la famiglie dovette rifornire la mensa con il vino prodotto. Quel ragazzotto di cognome faceva Bove e da cartografo, imbarcato sulla Vega, tracciò la prima rotta di Nord-Est. 

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Riccardo Coletti


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Il dossier di Legambiente lancia l’allarme sullo spopolamento nei municipi sotto i 5mila abitanti



Italia

Un Comune su tre rischia di sparire


“In 25 anni un residente su sette se n’è andato. Ogni giovane, due anziani. Vuota una casa su tre”

Non solo Nord-Sud, c’è un altro divario che zavorra l’Italia. È quello tra centro e periferia. Da un lato ci sono le aree metropolitane e i capoluoghi «a sviluppo elevato»: centri che hanno consolidato specificità imprenditoriali spesso trascinandosi dietro l’hinterland. Dall’altra c’è la pletora dei piccoli comuni: paesini alpini che resistono alle asperità della montagna, mini-insediamenti abitativi abbarbicati sull’Appennino, municipi dimenticati da Dio e dagli uomini sparsi nelle campagne del Sud. Di questi mini-Comuni, 2430 (il 30% del totale) rischiano di non sopravvivere a causa del lento (ma almeno finora inesorabile) spopolamento. 

Nel Paese dei campanili l’85% dei Comuni (6875) ha meno di 10 mila abitanti. Di questi 5627 sono incasellati dalle statistiche sotto la voce «piccoli» perché non raggiungono i 5 mila residenti. Di più: ben 3532 (vale a dire il 43,8% del totale) restano sotto i 2 mila. Attenzione però, l’Italia non ha un numero di municipi superiore al resto d’Europa. A fronte degli 8 mila Comuni italiani (circa uno ogni 7500 abitanti circa), in Germania ci sono 11.334 gemeinden (uno ogni 7213), nel Regno Unito 9434 wards (uno ogni 6618) in Francia 36.680 communes (uno ogni 1774) e in Spagna 8116 municipios (uno ogni 5687). La media dell’Ue è di un ente ogni 4132 abitanti. Il problema è un altro e si chiama crollo demografico. Speso conseguenza della mancanza di lavoro e servizi locali. 

Un dossier di Legambiente (che sarà presentato oggi a Roma con l’Anci) fotografa il calo di popolazione e le caratteristiche di quello che viene definito il «disagio insediativo» dei piccoli Comuni. Non è un pericolo marginale: nei 2430 Comuni a rischio sopravvivenza vivono quasi 3 milioni e mezzo di italiani, il 5,8% della popolazione. Ma in 25 anni i Paesi sotto i 5 mila residenti hanno perso 675 mila abitanti. Un calo del 6,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione italiana cresceva del +7% con oltre 4 milioni di cittadini in più rispetto al 1991. La differenza demografica netta è quindi del 13%. Significa che in un quarto di secolo una persona su sette se n’è andata dai piccoli Comuni. La densità è scesa a 36 persone per chilometro quadrato: 13 volte in meno rispetto agli insediamenti con oltre 5 mila abitanti. 

Sempre di meno e sempre più vecchi. In quest’Italia in miniatura, dall’anima rurale, gli over 65 sono aumentati dell’83% a fronte degli under 14. Dalla sostanziale parità si è passati a oltre due anziani per ogni giovanissimo. I piccoli comuni sono poco attraenti anche per la popolazione che arriva dall’estero. Dato ribadito dal deficit di imprese straniere, il 25,6% in meno della media.

Il pericolo è che i borghi siano destinati a diventare i paesi fantasma del terzo millennio. Già oggi le abitazioni vuote sfiorano i 2 milioni (mentre sono 4 milioni e 345 mila quelle occupate): vale a dire una su tre. E finora nemmeno il turismo ha salvato il patrimonio dei mini-Comuni, dove la capacità ricettiva è cresciuta meno della metà di quella urbana.

Il rilancio dei «piccoli» è al centro di “Voler bene all’Italia”, la festa dei borghi promossa da Legambiente dal 2 al 5 giugno. Per la presidente Rossella Muroni «è indispensabile puntare sulla semplificazione amministrativa, mantenere presidi come scuole, servizi postali e ospedali e garantire risorse per la valorizzazione come prevede il ddl in discussione alla Camera». Anche perché «una politica che dimentica i piccoli comuni - avverte Massimo Castelli, coordinatore dell’Anci - non fa l’interesse del Paese».

L’altra faccia di questo quadro a tinte fosche è la corsa alle fusioni per razionalizzare spese e gestioni dei servizi. Il primo gennaio 2016 sono spariti 40 Comuni. E non è finita. Il governo spinge sull’acceleratore e in manovra ha confermato il contributo straordinario pari al 40% dei trasferimenti erariali dell’anno 2010 per chi si fonde. Altri sette progetti di accorpamento hanno già ottenuto il via libera dei cittadini tramite referendum. È il paradosso del Paese dei mille campanili: per salvarli, tocca superarli. 

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Gabriele Martini