ebook di Fulvio Romano

lunedì 29 luglio 2013

Una mostra ad Asti: quando il futuro era azzurro...


LA STAMPA

Cultura

Quando il futuro era azzurro troppo azzurro per noi

Ad Asti una mostra dedicata alla “Rinascita” dell’Italia dal 1945 al 1969

Tra capolavori di design, poster e foto, le suggestioni di Paolo Conte

Prendete lo spartito di un direttore d’orchestra e apritelo a caso: vedrete una fila di pentagrammi sui quali sono segnate le note che i vari strumenti devono suonare in un dato intervallo, tutti in egual misura importanti per il risultato finale. Avrete così un’idea di come Davide Rampello ha progettato la mostra di palazzo Mazzetti ad Asti, la prima delle tre dedicate alla «Rinascita». Visitandola scorrete dentro questo spartito che racconta passo passo le «Storie dell’Italia che ce l’ha fatta» nei 25 anni che vanno dal 25 aprile 1945 al 20 luglio 1969 (sbarco dell’uomo sulla Luna). Alzando lo sguardo, potete leggere sulle prime righe del pentagramma i numeri forniti dall’Istat, scanditi di cinque in cinque anni. I numeri sono aridi ma essenziali per farsi un’idea delle dinamiche sociali: il pil dal ’48 al ’63 cresce del 6% ogni anno, nel ’46 3 italiani su 1000 hanno un’automobile e nel ’71 diventano 209. Sotto, in corrispondenza dei numeri, trovate gli oggetti, i reperti, le immagini, i progetti che testimoniano il flusso di energia creativa che ha mosso gli anni del dopoguerra.

Tutti significativi: il mastello di Moplen, la rivoluzionaria plastica inventata dal premio Nobel Giulio Natta e accanto una meravigliosa opera di Alberto Burri che inseriva la plastica bruciacchiata nei suoi quadri. Erano anni in cui anche uno scolapasta, uno schiaccianoci, un interruttore, una pompa di benzina potevano diventare opere d’arte applicata grazie ai nostri geniali designer (tra il 1956 e il 1960 sono stati rilasciati 25.000 brevetti in questo campo, tra cui 900 per lampade). Non è un panorama di soli capolavori assoluti, come la Lettera 22, la Cisitalia 202 GT di Pininfarina, le radio e i televisori Brionvega di Marco Zanuso e Richard Sapper, ma questi sono accompagnati dal basso continuo delle gigantografie attinte dall’archivio del Touring Club (400 mila fotografie) che mostrano un’Italia scalza, affamata ma vogliosa di riscatto. I rapporti umani non erano avvelenati dall’invidia sociale e dal rancore. Tutto si teneva.

I relais della memoria scattano inesorabili di fronte ai poster pubblicitari di Erberto Carboni e di Armando Testa (il suo Pippopotamo fa da contraltare al Grande Radiale di bronzo di Giò Pomodoro del 1966). Era una stagione di «uomini soli al comando»: adesso, a fare il lavoro di Testa e di Carboni, si applicano intere agenzie, Dante Giacosa ha disegnato da solo la 600 e la 500, adesso si mettono in cinquemila per un nuovo modello; Bista Giorgini inventava da solo Pitti Moda e faceva debuttare il ventenne Capucci. Noi ragazzi astigiani giocavamo a biglie con i cuscinetti a sfera difettosi della Way Assauto (venduta ai cinesi e poi chiusa), leggevamo i primi numeri della grigia Bur (50 lire a volume) e non sapevamo di stare dentro un flusso virtuoso che avrebbe accompagnato la nostra crescita.

Sono ben tre i palazzi coinvolti nella mostra: uscendo da palazzo Mazzetti proseguite per corso Alfieri e, superati il liceo Alfieri e la biblioteca Alfieri, approdate al palazzo Alfieri, casa natale del trageda. Vittorio non può lamentarsi, Asti non l’ha dimenticato. Qui le sale sono organizzate come mediateca, con il cinema, la televisione, la radio, la letteratura, la cronaca, e il visitatore può scegliere visioni e ascolti da un ampio menù. Sempre a palazzo Alfieri sono esposti 14 grandi arazzi dell’arazzeria Scassa, nata ad Asti negli Anni 60, che riproducono quadri di grandi pittori moderni in arazzi di stupefacente bellezza.

Non è finita: uscendo da palazzo Alfieri tornate indietro ed entrate a palazzo Ottolenghi dove la storia dei 25 anni è rivissuta dal punto di vista della città di Asti. In quegli anni la vita in provincia era uguale dappertutto, dalla Rimini di Fellini alla Catania di Brancati. Alla Asti di Paolo Conte. Qui gli autori della mostra hanno avuto il colpo d’ala di sfruttare i ricordi e i racconti di questo inimitabile creatore di miti. Miti costruiti con materiali poveri, di scarto, vecchie cartoline, vecchie copertine di dischi, vecchie storie ascoltate mille volte al bar. Paolo si colloca al margine delle sue storie, si nasconde. Osservando bene, dietro ai vetri della finestra da cui ci guarda vivere, si indovina il suo profilo, il profilo di un dandy polveroso e supremo. Sono tredici installazioni; restano nella memoria la sala della Liberazione («Una notte mia madre mi portò alla finestra e, attraverso un lembo strappato della carta blu, mi fece guardare fuori: i tedeschi se ne andavano») e quella del Boogie con gonne femminili appese a ventilatori e roteanti in vortici instancabili. L’ultima tappa è un prato verde da innaffiare con pensieri di speranza.

Come documentano i saggi nel denso e accurato catalogo edito da Skira, non tutte le narrazioni sono terminate allo stesso modo. Sfortunata la storia dell’architettura che fornisce, con il cantiere del grattacielo Pirelli a Milano di Giò Ponti e Pier Luigi Nervi, l’icona della mostra. Nonostante la presenza di grandi architetti (Carlo Mollino, Carlo Scarpa, Giovanni Astengo, Gabetti & Aimaro Isola) con la scusa di ricostruire in fretta le città distrutte si è permesso il sacco del territorio e del paesaggio. Sergio Pace scrive che «si è passati dalle case per tutti alle case dappertutto»; tuttora ogni giorno in Italia si consumano 45 ettari di suolo.

La mostra sulla Rinascita non induce allo sconforto, anzi fa venire voglia di riprovarci, dopo aver risolto qualche dubbio. Scrive il curatore Davide Rampello che nel dopoguerra «la volontà di ripartire è dirompente ma anche leggera». È forse nella leggerezza il virus che ha corroso dall’interno lo slancio fino a farlo sfiorire? Nel confidare nello stellone d’Italia? Nel non preoccuparsi di piantare solide fondamenta per reggere il made in Italy quando sarebbe venuta meno la simpatia e la benevolenza che tutto il mondo manifestava verso di noi? Non perdete l’occasione di visitare questa mostra evento che ha coinvolto decine di collaboratori illustri e 87 prestatori d’opera. Il biglietto vale per due giorni e resterà aperta fino al 3 novembre. Non avete scuse.

Bruno Gambarotta


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