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domenica 14 luglio 2013

Senza crescita inutile tagliare la spesa...

LA STAMPA

Economia

“Senza crescita inutile tagliare la spesa”

Bruxelles riflette sul dogma del rapporto deficit/pil

Ipnotizzato dai riflessi della matematica, il dibattito della politica su come salvare l’economia rischia di finire fuori strada. Nel confronto di mezz’estate fanno titolo più le minacce ipotetiche di manovre aggiuntive ottobrine che non le soluzioni pratiche possibili, sebbene solo in parte immediate, sui cui bisognerebbe lavorare, mangiandosi pure le vacanze perché non c’è scelta.

In questi scampoli di fine stagione, a Bruxelles studiano il caso italiano convinti che, nonostante il debito «monstre», il vero problema non siano conti pubblici più o meno imbrigliati, quanto la crescita che non c’è (da anni). Certo, dicono, la spesa va asciugata e le entrate sono da corroborare. Ma se non cresciamo non si va proprio da nessuna parte.

E’ una trappola numerica. Quando vent’anni fa si sono fissati i parametri virtuosi per la contabilità pubblica dell’Ue, s’è adottato il criterio del calcolo in percentuale del pil, trasparente ma pericoloso: in caso di crisi prolungata, le cifre di deficit e debito peggiorano anche se le redini del bilancio sono salde nelle mani del Tesoro. Lo insegnano alle elementari: se cala il denominatore, sale il numeratore.

E’ successo questo. «Dall’ultimo Tremonti i conti risultano sostenibili», certifica una fonte Ue. Al netto del ciclo, il disavanzo è inferiore al 3% dal 2011, e adesso si trova in sostanziale pareggio strutturale. Se fossimo passati per anni di stagnazione non avremmo avuto un peggioramento relativo della posizione. E’ purtroppo andata in modo diverso.

Prima che il governo avviasse il rimborso dei crediti commerciali, la Commissione ci attribuiva un deficit al 2,4% del pil nel 2013 e una clima recessivo da 1,1 punti. In maggio, l’operazione salvaimprese ha portato il disavanzo al 2,9, appena sotto il famigerato 3%, mentre la decrescita veniva corretta all’1,3. Come dire a un millimetro dalla zona del fabbisogno eccessivo da cui siamo appena rientrati.

Ora sappiamo - lo ha stimato la Banca d’Italia - che il pedaggio della recessione sarà più doloroso: andremo in rosso di due punti. Ne consegue un ragionamento tristemente semplice. Se il deficit era al 2,9% di un pil che calava dell’1,3, una frenata del 2 e oltre ci porta automaticamente al 3,3/3,4. Una vera beffa, visto che si tratterebbe di una pura variazione matematica a cui si arriva senza aver speso un cent in più o averne incassato uno in meno. Mentre il danno verrebbe con le possibili reprimenda di Bruxelles (invito a correzioni incluso), da cui potremmo salvarci solo se riuscissimo a dimostrare che si tratta di un picco e non di una condizione strutturale.

Siamo vittime d’una frazione. Sotto c’è il pil che cala inesorabilmente in un paese che in questo secolo ha solo perduto competitività, ha gonfiato le retribuzioni ma non la produttività, e si è sviluppato come un stelo nel deserto. Sopra c’è il deficit, che cresce senza muoversi. E’ la maledizione del nostro governo.

«Dico sempre agli italiani che la risposta è “crescita, crescita, crescita!”», lamenta un alto funzionario della Commissione. Vero. Basta tenere i conti così, fermi, senza creare altri buchi, e concentrarsi per il possibile sugli stimoli per sviluppo e competitività, realizzando le riforme che abbiamo concordato nelle raccomandazioni Ue di giugno, nulla che non fosse scontato, come detassare il lavoro, formare i giovani e aprire il mercato. Qualche taglio alla spesa aiuta, ma basta spendere bene i fondi Ue per cambiare passo. Altro rigore danneggerebbe l’economia, e sarebbe paradossale, perché restringendosi il pil, farebbe salire il deficit in una spirale da matti. Dalla quale, al punto in cui siamo, ci si libera solo puntando tutto sull’inversione del ciclo. Davvero, però, senza chiacchiere, con acume strategico e concordia politica. Bisogna agire sul denominatore, risollevando imprese e lavoratori. Il debito seguirà. La matematica può essere spietata ma, come è noto, non è un’opinione.

marco zatterin


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